L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Suoni ardenti senza teatro

di Sergio Albertini

Nonostante le buone prove del cast e la direzione ardente di Donato Renzetti, Andrea Chénier a Cagliari è penalizzato dalla regia di Nicola Berloffa.

CAGLIARI, 23 aprile 2023 - “Questo azzurro sofà/là collochiam!” Sono le prime battute, affidate al Maestro di Casa, che aprono l'Andrea Chenier di Giordano. Ma se vedi due servitori, ciascuno con una sedia, che obbediscono alle indicazioni, e il sofà non c'è, qualcosa inizia a turbare il povero critico. Non sarà l'unica volta. Nel drammatico duetto tra Gérard e Maddalena, nel terzo quadro, lui dichiara con passione irrefrenabile “io pur voglio affondare/le mie mani nel mare/dei tuoi capelli biondi!”. Maddalena, per tutti e quattro i quadri, è bruna. Vistosamente bruna. Quando, durante la notte, vicino al Caffè, Maddalena si mostra a Chénier, lui non la riconosce fintanto che lei non si mostri (e le indicazioni, minuziose, di Illica, dicono di Maddalena che, “scostando la mantiglia, ed avanzandosi sotto la luce della lampada che arde...”); ecco, i due invece sono vis-a-vis per tutto il duetto, e suona strano che il giovine ci impieghi così tanto a riconoscere la fanciulla. Fanciulla che, più avanti nell'opera, intona il celeberrimo “La mamma morta” dove narra: “La mamma morta/m'hanno a la porta/della stanza mia;/moriva e mi salvava!”: la mamma Contessa, invece, al termine del Quadro primo viene infilzata da una lama da un servitore, dopo aver invitato (indicazioni di Illica) gli ospiti a disporsi nuovamente alla danza (“L'interrotta gavotta, mie dame, ripigliamo”). Peccato che scelte bislacche del regista la pongano assolutamente sola in scena. Quarto quadro: Schmidt prende dalle mani di Maddalena (è sempre Illica a precisarlo, nel libretto) “la carta di permesso da dare alla Legray”. Che invece resterà lì, sdraiata per terra, chissà perchè. Morirà anch'essa, nonostante il sacrificio di Maddalena.

Ora, Nicola Berloffa, regista dell'Andrea Chenier andato in scena al Teatro Lirico dal 21 al 30 aprile (io ho assistito alla terza replica, quella del 23 aprile), per alcune soluzioni ha dovuto fare di necessità virtù: si tratta di una coproduzione tra numerosi teatri di tradizione (Modena, Piacenza, Reggio Emilia, Ravenna, Parma, Toulon – dove lo spettacolo è andato in scena nel 2019) e un Ente Lirico (Cagliari). Quindi, spettacolo da trasportare, da montare in palcoscenici diversi. Questo ha comportato, tra i tanti paradossi, la presenza della ghilghiottina, fissa in scena nel secondo, terzo e quarto quadro. La scena (le scene?) i Justin Arienti è un ambiente fisso, un perenne 'interno'; niente giardino d'inverno, nente gran serra al primo quadro. Il castello dei Conti di Coigny mostra due pareti ad angolo (che tagliano gran parte del palcoscenico, riducendo – e di molto – lo spazio agibile); in una, carte da parati in disfacimento (“ho utilizzato anche alcune grandi fotografie di Robert Polidori che documentano i lavori di restauro e riqualificazione della Reggia di Versailles. Evidentemente, attraverso il racconto della dissezione quasi anatomica di una struttura tanto imponente e significativa, si cerca di riportare quel senso di disfacimento generale che pervade, effettivamente, il primo atto dello Chénier”, dichiara Berloffa); nell'altra, una immensa tela (un quadro che raffigura Marie-Antoniette et ses enfants, opera di Elisabeth Vigée Le Brun). L'improvviso crollo della tela apre una camera in legno da cui arriva la “folla di gente, straccita e languente”, la ghigliottina – che diventa palcoscenico da vaudeville per Bersi, presenza ingombrante nella stanza del tribunale, su cui svetta una impalcatura, atta alla realizzazione di un affresco rivoluzionario, e poi spazio a più livelli affollato da coro e figuranti.

Ecco: coro e figuranti sono gestiti malamente da Berloffa in uno spazio inadeguato e irrisolto, con un via vai attraverso porte e porticine, così come i protagonisti, spesso abbandonati ad una gestualità di maniera, obsoleta e oggi inaccettabile (per tutte: durante la celebre "Un dì all'azzurro spazio" il povero Chénier resta immobile, braccio sinistro penzoloni, braccio destro a disegnare le solite arcate su e giù, esterno e interno verso il petto).

Musicalmente, c'è Donato Renzetti sul podio: un podio bruciante, sin dall'introduzione, con le rapide scale dei violini prima, dei legni poi, che mal si sposano in scena con una svogliata schiera di servi che preparano la festa. Renzetti tiene perfettamente 'in bacchetta' le fila del racconto, come nel rcconto dell'Abate in cui s'assapora il morbido registro basso di violoncelli e fagotti. Bene risponde alle intenzioni di Renzetti il giovane Chénier del georgiano Mikheil Sheshaberidze; al suo attivo un registro acuto di spavalda bellezza, balucinante d'argento e sicuro sino alla spavalderia. Dovrà acquisire miglior controllo degli ariosi, porre più attenzione nell'accentare certi momenti (“Ecco la bellezza della vita” è indicato in partitura 'con slancio'). Nell'arringa "Sì, fui soldato" trova accenti accorati e di un nitore furioso è il La bemolle sulla parola "Uccidi?". Accanto a lui un ottimo Gérard: Devid Cecconi scolpisce il suo ruolo sin dal suo monologo iniziale contro la nobiltà, raggiungendo ottimi vertici interpretativi nel duetto al Quadro terzo con Maddalena. La quale è Oksana Dyka, ucraina – che ha perso il fratello da poco nella guerra che si sta combattendo nel suo paese. Se il timbro lascia trapelare certe caratteristiche slave, il suo colore da soprano drammatico si adatta perfettamente alle esigenze di Giordano; la sua 'parola scenica' dà il meglio nella grande scena con Gérard, sebbene il quasi parlando della frase "Se della vita sua tu fai prezzo il mio corpo" risulti forse – nella sua bassa tessitura – poco comodo.

Tutti adeguati al loro ruolo gli altri interpreti: Cristina Melis (Bersi), Valentina Coletti (la Contessa di Coigny), Antonella Colaianni (Madelon), Peter Naydenov (Roucher), Viktor Shevechenko (Fleville e Tinville), Luciano Roberti (Mathieu), Mario Bolognesi (un Incredibile), Orlando Polidoro (l'Abate), Alessandro Frabotta (Schmidt e il Maestro di casa), Alessandro Carta (Dumas).

Il coro era diretto da Marcovalerio Marletta, i costumi (con qualche pretesa filologica di troppo) di Edoardo Russo, le luci (poco efficaci, con qualche taglio laterale similcaravaggesco) di Valerio Tibori, le coreografie (due brevi interventi, manierati e leziosi) di Luigia Frattaroli.

Il pubblico è apparso entusiasta e soddisfatto, tributando applausi a tutti gli interpreti. Nonostante il caos in scena e le incongruenze registiche.

Sergio Albertini

recita del 23 aprile


 

 

 
 
 

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