L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'altra faccia della medaglia

di Roberta Pedrotti

La ripresa dello spettacolo di Martone del 2014 per Aureliano in Palmira si presenta in una nuova prospettiva, cambiando spazio e interpreti. Nel cast gli applausi più calorosi vanno a Sara Blanch e Raffaella Lupinacci.

Leggi anche: Pesaro, Aureliano in Palmira, 12/08/2014 e Zenobia regina di Palmira

PESARO, 12 agosto 2023 - Guai a pensare, di fronte alla ripresa di un allestimento già visto, di poterne tranquilli prevedere l'esito preparandosi a una serata di rassicurante ripetizione. Sono passati nove anni dalla prima di Aureliano in Palmira a Pesaro con la regia di Mario Martone; il progetto iniziale prevedeva una collaborazione internazionale e la ripresa dell'opera proprio nell'antica capitale siriana. Poi, si ricorderà, ci fu la guerra, l'avvento dell'ISIS, la distruzione. Allora, sentir cantare “Là pugnai; la sorte arrise | a Palmira, al braccio mio: | quel gran giorno non oblio, | quel gran giorno ancor verrà!” commuoveva, parlava del presente. Oggi, è chiaro, quell'emozione non è altrettanto viva nel nostro quotidiano, sostituita da altre guerre e altri dolori.

Allora, con necessità di risparmio, lo spettacolo minimalista di Martone si raccoglieva nel Teatro Rossini; oggi, con il contributo della regista collaboratrice Daniela Schiavone, si deve espandere nella Vitrifrigo Arena e necessariamente perde di intimità e poesia, si fa più stereotipato nel gesto, perde il rapporto con l'architettura ottocentesca che così bene si integrava con le scene di Sergio Tramonti e con i costumi di Ursula Patzak, nonché con l'abitudine del regista ad abitare lo spazio al di là delle posizioni convenzionali. Si crea, però, una piccola mitologia parallela, favoleggiando di una quarta capretta prevista oltre alle tre che vediamo in scena e misteriosamente scomparsa... qualcuno racconta che sia stata avvistata in un circo: si prospettano evoluzioni romanzesche da fare invidia alle apparizioni della Monachella del Massimo di Palermo.

Nel 2014, Zenobia e Arsace erano Jessica Pratt e Lena Belkina, l'una alta e maestosa, l'altra minuta e adolescenziale, sicché nella coppia era evidente anche sul piano visivo l'autorevolezza della regina rispetto al suo trepido innamorato (che in effetti, da libretto, non fa che perder battaglie). Oggi è la sovrana guerriera ad apparire delicata e sottile, con un amante più alto e aitante: la dinamica amorosa sembra cambiare equilibri, conferire maggior peso eroico ad Arsace a fronte di una Zenobia meno dominante. La vista, indubbiamente, conta in teatro, ma anche le voci rispecchiano un differente rapporto. Raffaella Lupinacci, che svetta soprattutto in acuto e domina con nobile slancio e bella sensibilità la parte scritta per il mitico castrato Velluti, è un vero giovane principe innamorato con la spada in pugno, sfortunato ma non velleitario. Davvero una bella prova, anche sul piano attoriale. Nondimeno, Sara Blanch non solo canta bene, ma amministra con grande intelligenza i suoi mezzi di soprano leggero in una scrittura davvero insidiosa, che, sì, richiede sfavillante coloratura acuta, ma anche accento aulico e scolpito, salda sostanza nel registro centro grave. Là dove la natura potrebbe non favorirla, non forza l'emissione, ma costruisce un personaggio giovane e femminile, fiero e ardimentoso. La relazione fra la regina e il suo generale, amanti appassionati e ribelli all'invasione romana, appare oggi decisamente più paritaria. 

Nei panni di Aureliano (vestiti nel 2014 dal fenomeno Michael Spyres), Alexey Tarintsev – non proprio un baritenore – si fa valere con acuti sicuri, dizione e coloratura scrupolose, buona resa complessiva di una scrittura assai ostica, senza un attimo di tregua, tanto che qualche piccolo segno di stanchezza verso il finale è ampiamente giustificato.

Buono anche il gruppo dei comprimari. Marta Pluda eredita la parte di Publia che nel 2014 fu di Lupinacci: le auguriamo sia di buon auspicio, come sembra suggerire l'attenta caratterizzazione della nobildonna che prima ostacola per gelosia e poi favorisce la salvezza di Zenobia e Arsace. Sunnyboy Dladla è un Oraspe di buono squillo e accento efficace (con l'occasione, ricordiamo Dempsey Rivera, il promettente interprete del 2014, prematuramente scomparso). Davide Giangregorio, Licinio, Alessandro Abis, il Gran Sacerdote, e Elcis Adil, un pastore, si fanno pure apprezzare nelle rispettive parti. Con loro va citata anche Hana Lee, maestra al fortepiano cui la regia di Martone riserva un particolare rilievo scenico (che, però, esclude la possibilità di completare il continuo con almeno un violoncello).

Si conferma, rispetto al 2014, la presenza in buca dell'Orchestra Sinfonica Rossini, mentre il Coro stavolta è quello del Teatro della Fortuna di Fano preparato da Mirca Rosciani. Come già notato per Eduardo e Cristina con il coro del Ventidio Basso, l'impegno e il coinvolgimento dei complessi locali è lodevole, ma si sente un po' la mancanza di una compagine di maggior rilievo. Sul podio, là dove nove anni fa trovavamo in Will Crutchfield più che altro il curatore dell'edizione critica insieme con Daniele Carnini, George Petrou ha solida professionalità e buona visione d'insieme, soprattutto in rapporto al canto e alla situazione (il fatto che molta musica confluisca in Elisabetta e nel Barbiere non deve farci dimenticare che qui è nata e trova una sua naturale collocazione espressiva). Tuttavia, la complessità dell'orchestrazione che Rossini sviluppa alla Scala in quest'opera alla fine del 1813 rischia di sollecitare qualche pesantezza, o, nella tendenza a scatti agogici tipica di tanti musicisti provenienti dal barocco, qualche passaggio meno nitido. Il risultato, ad ogni modo, è convincente per una partitura pregevole quanto complessa e impegnativa: il pubblico la premia e non manca di battere mani e piedi anche a scena aperta. Val la pena di festeggiare un'opera che non si vede tutti i giorni, ma soprattutto, l'essenza stessa di quest'arte, in cui non importa quante volte si sono visti un titolo, una produzione degli interpreti: potrà sempre esserci un'altra faccia della medaglia da scoprire.


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