L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il Mozart del mezzo secolo

di Francesco Lora

Regìa di Giorgio Strehler, scene di Ezio Frigerio, costumi di Franca Squarciapino, direzione di Andrés Orozco-Estrada e una compagnia di canto dove stravincono gli italiani, capitanati da Ildebrando D’Arcangelo. Tutto esaurito; ma che per queste Nozze di Figaro, dopo cinquant’anni, sia finalmente l’ultima volta.

MILANO, 7 ottobre 2023 – Va benissimo riprendere Le nozze di Figaro nell’allestimento con regìa di Giorgio Strehler, scene di Ezio Frigerio e costumi di Franca Squarciapino, quell’allestimento concepito nel 1973 per l’Opéra royal di Versailles e passato nel 1981 alla Scala di Milano, per la bellezza di oltre settanta recite negli ultimi quaranta e più anni. Va benissimo, ma che sia l’ultima volta: quel capolavoro di lettura teatrale, benché ancora oggi assicuri il tutto esaurito con la propria fama, è infatti svanito col tempo che passa. Da una parte, è cambiato il modo d’interpretare questo capolavoro di Mozart, è cambiato ciò che si può fare a livello scenotecnico su un palco ed è cambiato ciò che il pubblico vede – e s’aspetta di vedere – in teatro. Dall’altra parte, si moltiplicano i dubbi su cosa davvero sia rimasto dell’originale strehleriano, già non poco ribaltato nella sua traslazione dal contenuto e riservato teatro di corte francese all’immenso e metropolitano teatro pubblico italiano. Nel 2002, quando chi scrive vi assistette per due volte, agli Arcimboldi per la Scala e all’Alighieri per il Ravenna Festival, la memorabile galleria di palazzo nobiliare progettata da Frigerio per l’atto III, il bello della quale è srotolare il lato lunghissimo davanti all’osservatore, era stata orrendamente mozzata per consentirne l’ingresso in spazi scenici ristretti (a proposito: il palcoscenico della Scala, un cantiere dopo l’altro, ha appena compiuto i suoi primi settanta metri di profondità). Bene: nel 2002 Strehler era morto da cinque anni e la regìa era ripresa da Michael Heltau; negli scorsi 30 settembre - 20 ottobre, invece, per sette recite, alla Scala, la regìa è stata ripresa da Marina Bianchi e la galleria di Frigerio è tornata al proprio mirabile effetto ottico, già ripristinato in altri quattro cicli di alzate di sipario. Il problema è che si vedono pasticci non degni del più ricco a altezzoso teatro d’Italia, e sarebbe utile se qualcuno di meno giovane ne chiarisse l’originalità o l’andata in malora: nella camera di Figaro e Susanna, atto I, i personaggi agiscono, per lunghi tratti di tempo e senza ragione teatrale, fermi in coni d’ombra che li rendono quasi invisibili; il gabinetto padronale, atto II, vede la porta chiusa dall’esterno e non dall’interno, sicché Cherubino vi è prigioniero, e si perde il senso di chi abbia o no il potere di usare la chiave; nella galleria di Frigerio, appunto atto III, i figuranti invadono lo spazio fino al fondo, incuranti dell’illusione prospettica che li fa così apparire giganti rispetto al proscenio. Non finisce qui, e stavolta la responsabilità di Strehler è comprovata e imbarazzante. Due esempi. Il primo: non si fa che magnificare il libretto di Lorenzo Da Ponte e la sua simbiosi con la drammaturgia musicale del compositore; in due passi, però, Strehler cambia a capriccio le parole e si fa reo di mozarticidio: per ovviare al suddetto pasticcio della chiave – Cherubino non può aprire, se è stato chiuso dentro – Susanna canta «Sortite, via sortite; | sortite, ecc.» anziché «Aprite, presto aprite; | aprite, ecc.»; passi; ma più grave è ciò che capita nella precedente aria di Susanna, «Venite, inginocchiatevi», quella durante la quale due donne ronzano maliziose e onnipotenti su un adolescente innamorato di entrambe e ridotto suo malgrado all’immobilità: «Restate fermo… Or via giratevi… Guardatemi… Bravo… | Più alto quel colletto… | […] | Vedremo poscia il passo | quando sarete in piè» diviene «Orsù venite… Là dietro andate… Vestitevi… Bravo… | Sciogliete quei capelli… | […] | Orsù proviamo il passo | ora che siete in piè»; e addio ai sottintesi erotici. Il secondo esempio: fin dal 1965 (ricerche di Robert Moberly e Christopher Raeburn) è noto che le scene V-VIII dell’atto III, scompaginate per tradizione, onde consentire il cambio d’abito all’unico interprete delle due parti di Bartolo e Antonio, vanno risistemate nel giusto ordine: se la scena col dolente rondò della Contessa d’Almaviva non seguisse a quella con la furiosa aria del Conte, infatti, non si capirebbe chi, attendendo trepidante Susanna, le abbia poi dato le mille doppie da esibire al processo di Marcellina contro Figaro; ecco: in Strehler – non in un carneade qualsiasi; e la questione è teatrale, non musicale – la disposizione delle scene rimane quella sbagliata. Alle somme: benché ancora oggi assicuri il tutto esaurito con la propria fama, si potrà imparare a lasciare a casa l’allestimento del mezzo secolo.

Non s’è ancora qui iniziato a parlare di musica, precisamente come al grosso del pubblico saranno interessati meno i nomi dei musicisti che quello di Giorgio regista, impaginato nella locandina con lo stesso corpo di carattere riservato a Wolfgang Amadé. Finita l’associazione storica di Riccardo Muti a questo allestimento, e dissolta quella effimera dei più modesti nomi che l’hanno rilevato dopo di lui, le sette recite in questione sono state condotte da Andrés Orozco-Estrada, neo-direttore principale dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai e qui al debutto in un’opera alla Scala. Bastano poche parole. Piace, sulle prime, nell’Ouverture, che egli dia risalto alla macchina bellica di trombe e timpani, eventualmente estendendola ai corni, così da simulare, per il tramite di moderni strumenti a pistoni, la più incisiva fonica di quelli antichi e naturali. Piace, anche, che nei recitativi secchi il basso continuo non sia limitato al fortepiano, ma includa anche il violoncello, il quale sarebbe obbligatorio ma finisce quasi sempre, per finta o per povertà o per ignoranza, dimenticato. Il resto del lavoro di Orozco-Estrada, però, consiste in un’onesta routine di lavoro sul suono rotondo e innocuo, attraverso tempi di confortevole o soporifera ampiezza: ciò che in Mozart, alla Scala, lascia un esempio non buono di abnegazione e superiorità. Anche la compagnia di canto fa sospettare che la composizione della locandina sia avvenuta in vista più del disimpegno che dell’eccellenza, come se la Scala fosse un teatro di repertorio alla maniera dell’Opera di Stato di Vienna anziché un centro di promulgazione dell’ottimo operistico. A puntino giunge l’esempio di Olga Bezsmertna, ex soprano-utilité proprio a Vienna e ultimamente promossa, alla Scala, in un copioso numero di spettacoli responsabilizzanti e con la fama di lei non sempre adeguata a quella del teatro: gran bene le è andata nella Calisto di Cavalli del 2021 e nella recente Rusalka di Dvořák, peraltro come protagonista assoluta di due spettacoli formidabili e in due repertorii agli antipodi; ma la Contessa mozartiana, alla Scala, dopo avervi ascoltato Barbara Frittoli, sta davvero larghetta al soprano ucraino, con quella prosodia italiana poco fluida e con quella linea estranea al belcanto. Il prevedibile esatto contrario è Benedetta Torre, ma stupisce trovare in lei la Susanna che, se non è la meno amabile mai incontrata in teatro, poco ci manca. Tanto più spigliato risulta, accanto a lei, il Figaro di Luca Micheletti, baritono che in Mozart trova una tessitura più acconcia rispetto a quella di Verdi e dei suoi recenti Vespri siciliani, sempre alla Scala. Tale disinvoltura non sorprende: è noto che questo cantante conduce, in parallelo, una carriera notevole da attore di prosa. Sorprende, piuttosto, che ulteriormente spigliato, cioè più di lui, sia Ildebrando D’Arcangelo, un sommo Figaro dei nostri giorni, tornato qui alla parte del Conte, frequentata all’inizio della carriera: se il timbro vanta un bouquet d’armonici da capogiro, se l’estensione risulta sempre facile fino al Fa diesis acuto, se il volume è in esatta proporzione con la vastità della Scala, a colpire, tuttavia, è anzitutto l’arte di dare naturale e semplice sostanza psicologica a ogni parola, con una fantasia attoriale instancabile e senza mai uscire dalle coordinate musicali. Favoloso. Gli alti e i bassi proseguono scorrendo il resto della locandina. Stravincono gli italiani, per simpatia, comunicativa, esattezza di pronuncia e attendibilità della tecnica: Andrea Concetti come Bartolo, Matteo Falcier come Basilio, Paolo Antonio Nevi come Don Curzio e Lodovico Filippo Ravizza come Antonio. A quest’ultimo tocca farsi latore di una finezza testuale che rasenta l’ipercorrettismo: nell’atto II, scena X, Da Ponte scrisse ‘garòfani’ e Mozart compose ‘garofàni’; da sempre viene spontaneo emendare il compositore germanofono che non sapeva dove, su quei fiori, cadesse il giusto accento; alla Scala, con Orozco-Estrada, non lo si fa più. Rachel Frenkel, che a Vienna è stata un Cherubino modesto, qui passa alla parte di Marcellina: ne viene a capo con dignità e senza farsi tagliare l’aria (salvata anche nel caso di Basilio). Sempre secondo la routine viennese, Cherubino finisce trattato da comprimario: Svetlina Stoyanova prende così il posto che fu di una sublime Monica Bacelli. E dire che il paggio potrebbe essere il protagonista morale delle Nozze di Figaro: Strehler permettendo, si capisce.


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