L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

L'anima del dettaglio

di Luigi Raso

Con uno splendido programma fra Rachmaninov e Šostakóvič il pianista Nikolay Lugansky e il direttore Pinchas Steinberg incantano il San Carlo di Napoli.

NAPOLI, 26 gennaio 2024 - In medio stat... Nikolay Lugansky. È il pianista russo, uno dei più acclamati interpreti contemporanei di Rachmaninov, il trionfatore assoluto di una serata musicale che di spunti pregevoli e interessanti abbonda. Dopo l’esecuzione da manuale del Concerto n. 3 in re minore per pianoforte e orchestra, op. 30,un uragano di applausi si abbatte sul solista, dominatore assoluto di una delle pagine più ardite e fascinose della letteratura pianistica.

Tocco pulitissimo, dal suono nitido e rotondo, soppesato mirabilmente alle esigenze espressive, Lugansky ha impressionato sin dal primo iconico e, dopo il successo del film Shine (1996), pop tema per la precisione dell’articolazione, per la varietà delle dinamiche, per l’incisività del fraseggio. La tecnica perfetta di Lugansky, quasi “disumana” per la sua perfezione e precisione, la bellezza del tocco, l’uso perfetto del pedale, la varietà dei colori emessi costituiscono soltanto il substrato per un’interpretazione del Rach 3 appassionata, travolgente, innervata da magnetica tensione crescente eda struggente melanconia.

Scritto nel 1909, Il Concerto n. 3 è opera che, oltre il velo di una scrittura pianistica dominata da un virtuosismo funambolico, a tratti esasperato, cela un’essenza lirica, meditativa e melanconica. Nel 1917 Rachmaninov, a seguito della rivoluzione bolscevica, lascerà la sua patria; reciderà il cordone ombelicale con la grande madre Russia, con il suo mondo spirituale: questo Concerto, nel suo tardoromanticismo di impronta post-ciakovskjana, nel suo acceso sentimentalismo, è quasi presago del futuro traumatico distacco dalla sua Russia, del suo intimo disagio. Certi accessi di sentimentalismo, che nell’opera di Rachmanininov sono sempre in agguato, potrebbero interpretarsi come il timore/terrore da parte del pianista e compositore russo naturalizzato statunitense di allontanarsi dal liquido amniotico della grande cultura natìa.

E di questa doppia veste del Concerto n. 3 – l’impellenza di esibire un virtuosismo pianistico muscolare, e non solo, e la necessità di cercare rifugio in un meditativo raccoglimento interiore – Nikolay Lugansky è magnifico interprete: da un lato si immerge a piene mani (è proprio il caso di dirlo!) nel virtuosismo travolgente della scrittura (nei movimenti estremi del Concerto), dall’altro scandaglia, indaga e valorizza ogni singola nota e segno d’espressione dei momenti di inteso lirismo che Rachmaninov sparge nella partitura (in particolare, nel secondo movimento, Intermezzo: Adagio, il più malinconico e nostalgico), conferendo a ciascun episodio melodico la giusta tensione richiesta.

Lugansky è pianista che, pur nel verticalismo delle armonie di Rachmaninov, non perde mai di vista la sinuosa linearità del fiume carsico melodico: il disegno del complesso ordito resta riconoscibile, grazie al nitore del tocco, anche se fagocitato da poderose armonie. La tecnica di Lugansky è talmente sopraffina che gli consente cesellare e piegare ogni battuta del Concerto alle esigenze espressive dell’interprete: le sue mani possono diventare martelli sulla tastiera, seppur senza mai far smarrire la sgranatura delle armonie, ma possono evocare, come nel finale, un’aerea e diafana ridda di folletti, tanto leggero ed evanescente si fa il suo tocco.

Pur nel predominio assoluto e nell’iconico appeal della parte solistica, la complessa orchestrazione di Rachmaninov ha l’arduo compito di creare l’humus musicale dal quale far germogliare ed esaltare i frutti di un pianismo tanto ardito quanto affascinante. E stasera al San Carlo Pinchas Steinberg e l’Orchestra del San Carlo si dimostrano estremamente efficienti nel rivestire il pianoforte di Nikolay Lugansky di adeguata tensione, empito lirico, e sfolgorio di sonorità.

Superato un breve misunderstanding iniziale tra direttore e pianista, l’esecuzione procede corretta: l’Orchestra del San Carlo si mostra la suo meglio per compattezza tra sezioni, in gran spolvero sonoro, espressiva e generosa nell’immergersi nelle grandi arcate melodiche. Pinchas Steinberg, pur focalizzando le sue attenzioni più sull’orchestra che sulla perfetta simbiosi tra quest’ultima e il solista, perviene comunque ad un buon tasso di sintonia tra concertatore, orchestra e pianista; ma soprattutto, sin dal Concerto n. 3 di Rachmaninov, il suo gesto è proteso a valorizzare la compattezza della compagine del San Carlo, l’amalgama tra le varie sezioni (tutte in gran forma) e la ricerca, che si farà ancor più evidente nella successiva Sinfonia n. 5 n re minore, op. 47 di Šostakóvič , di un suono deliberatamente graffiante, ruvido, sferzante.

Dopo gli ultimi accordi del Concerto n. 3, applausi fragorosi, tanto calorosi, prolungati e perentori che inducono Lugansky a varie uscite di scena (almeno 4, salvo errori di calcolo) e, soprattutto, a concedere due meravigliosi bis: del suo amato Rachmaninov Lugansky propone, dai Dieci Preludes op. 23, il n. 7 in do minore e quale secondo encore, dai Tredici Preludes op. 32, l’evanescente n. 12 in sol diesis minore. Due miniature che testimoniano quanto Lugansky sia oggi interprete di riferimento assoluto per la musica di Rachmaninov.

La seconda parte del concerto è dedicata a un capolavoro del sinfonismo del ‘900, la Sinfonia n. 5 in re minore, op. 47 di Dmitri Šostakóvič , composta nel 1937 ed eseguita nell’allora Leningrado sotto la direzione di Evgenij Mravinskij: la Quinta di Šostakóvič , dopo le difficoltà connesse all’esecuzione della precedente sinfonia, è la risposta dell’autore alle accuse di formalismo rivoltegli dal regime di Stalin per l’opera Lady Macbeth del distretto di Mcensk: una risposta sottilmente ironica che, come gran parte della musica del ‘900 russo, investita dall’ottusa oppressione del regime comunista, nasconde raffinate e sottili critiche che i rozzi e zelanti censori difficilmente riuscirono a cogliere.

Una sinfonia, la Quinta di Šostakóvič , che, procedendo per episodi, analizza la tormentata coscienza umana dell’artista. Per raccontare questa storia, Pinchas Steinberg parte, ad avviso di chi scrive, dal suono: quello dell’incipit del primo movimento, Moderato, è volutamente graffiante, quasi ruvido. Questa connotazione sonora costituirà la cifra identificativa dell’intera esecuzione. Con questo tipo di sonorità Steinberg punta a rimarcare l’alterità dell’artista Šostakóvič rispetto al regime stalinista, ai suoi ciechi e assurdi diktat culturali. Sin dal primo movimento, dal modo con il quale il direttore gestisce il fluire del movimento, si nota che la visione del direttore israeliano punta a “sezionare” e scomporre la sinfonia.

Ciascuno degli episodi che costituiscono l’ossatura della Sinfonia è ben evidenziato, i suoi confini quasi sottolineati con tratto di pennarello; dalla cura che il concertatore di volta in volta riserva alle varie sezioni orchestrali si evince la visione di una Sinfonia percepita come un corpus unico, seppur costituita da parti tra loro sempre individuabili.

Una concezione interpretativa, questa di Steinberg, resa possibile grazie allo smalto sonoro di tutte le sezioni dell’Orchestra del San Carlo, che con questa Sinfonia ritrova quella compattezza, precisione, calore timbrico, incisività nel tratteggiare il discorso musicale che l’ultimo concerto sinfonico aveva fatto percepire alquanto appannati.

Il primo movimento, Moderato, è poderoso, incisivo, graffiante: procede per scatti; archi e ottoni si dimostrano incisivi, quasi inquietanti nella sonorità. Si cambia radicalmente registro nel successivo Allegretto, un valzer dal sapore mahleriano, sardonico nello spirito: molto ben costruito il gioco dei rimandi tra le sezioni, l’irrompere del sorriso beffardo dei legni, l’incedere leggero e incalzante degli archi.

Il vertice della visione a sezioni che Steinberg ha della Quinta sinfonia di Šostakóvič viene raggiunto nel Largo, probabilmente il vertice della Sinfonia stessa: se il compositore stesso suddivide gli archi per l’intero movimento, il direttore ne acuisce il senso di straniamento ricorrendo a un suono ora cupo, ora diafano (quello del flauto).

L’intero movimento è un crescendo lento di tensione che sfocia nel climax sonoro ed emotivo della ripresa del celebre tema. Ciò che Steinberg non perde mai di vista, pur sotto la pesante coltre sonora che la scrittura di Šostakóvič richiede, è l’architettura del brano, la sua articolazione interna, l’evidenziazione nitida della concatenazione dei contrappunti. L’incanto del Largo, sebbene cupo, è rotto dall’irruzione di timpani e ottoni che aprono il quarto e ultimo movimento, Allegro non troppo: è un ritratto spietato dell’oppressione del regime sovietico. L’intero movimento è costruito - e Steinberg lo dimostra senza indulgenze - come una contrapposizione netta e inconciliabile tra regime comunista e compositore.

La radiografia della partitura, la cura riservata da Pinchas Steinberg alla sinfonia trovano in questo movimento e nell’esaltazione della tonalità luminosa di Re maggiore da parte degli archi – rappresentazione musicale del compositore stesso, del suo anelito alla libertà – uno dei momenti più felici dell’intera esecuzione.

E dopo gli ultimi poderosi accordi, sul San Carlo si abbatte un’altra intesa tempesta di applausi: molto apprezzate l’orchestra, le sue prime parti, la grande esperienza e la profondità della lettura di Pinchas Steinberg.

Per la cronaca, teatro gremito, tutto esaurito;è piacevole notare la presenza di una folta rappresentanza in teatro di un pubblico giovane e giovanissimo, raccolto in un ascolto attento per tutta la durata del concerto e dedito allo scambio di giudizi appassionati e competenti sull’arte pianistica di Lugansky.


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