L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ritmo bulgaro

di Luca Fialdini

Bartók-Brahms, un binomio insolito per un applaudito concerto di tre artisti ospiti e residenti dell’Orchestra Sinfonica di Milano.

MILANO 01 marzo 2024 – Tutto considerato, Bartók conduce un’esistenza fluttuante nei nostri programmi concertistici: non si può dire che sia una rarità (specialmente dalle Danze rumene in giù), ma non è nemmeno così frequente da essere usuale. I suoi lavori sono un volto noto, ma non c’è ancora familiarità con loro; per questo è sempre una soddisfazione trovalo ad occupare una parte significativa di programma, specialmente se con titoli che esulano – anche solo di poco – dalla cerchia di quelli addomesticati.

È il caso della proposta dell’Orchestra Sinfonica di Milano, che serve in tavola i Canti contadini ungheresi BB 107 e il Concerto per due pianoforti e percussioni BB 121. Curiosamente, si tratta di due composizioni presentate non nella loro formulazione originaria ma in altrettante orchestrazioni curate dallo stesso Bartók; in particolare i primi derivano dalla raccolta pianistica dei 15 Canti contadini ungheresi BB 79 da cui il compositore ha estratto i brani n. 6-12, 14 e 15, impiegando questa scansione per creare tre movimenti strettamente collegati tra di loro. Come è facile immaginare dal titolo, questa breve sequenza di danze appartiene alla lunga serie di titoli basati su materiale popolare che Bartók raccolse grazie a svariate spedizioni nei villaggi della Transilvania, della Valacchia, della Bucovina, o ancora quelli situati attorno all’odierno confine fra Ungheria e Romania, spingendosi fino alla Turchia: un etnomusicologo itinerante che ha fatto, come in questo caso, largo uso della musica popolare intesa come materiale da costruzione per nuove composizioni; questo procedimento gli consente di trasferire nella musica colta alcune istanze tipiche della musica magiara, le più evidenti sono il profilo ritmico e quello armonico. La direzione di Jaume Satonja mette bene a fuoco il dettaglio folklorico con i suoi tratti crudi che Bartók non ha intenzione di ingentilire: il tratto melodico netto, i ritmi aguzzi, tutto e felicemente presente in esecuzione; molto bene anche il trattamento dei riferimenti al contesto popolare presenti in orchestrazione, a questo proposito vale la pena citare la diafonia degli oboi nell’ultimo movimento in cui imitano scopertamente il suono della cornamusa.

Il Concerto per due pianoforti e percussioni è l’orchestrazione della più celebre Concerto per due pianoforti e percussioni e rappresenta il proverbiale “rovescio della medaglia” o, più correttamente, il suo completamento: composizione che prosegue il percorso intrapreso con la Musica per archi, percussioni e celesta (le due sono nate a solo un anno di distanza), appartiene a quel vasto gruppo di lavori in cui Bartók non fa riferimento esplicito al retaggio folklorico, ma la lezione di questo è ben interiorizzata e viene impiegata come propulsore per spingersi in territori poco o affatto esplorati: le strutture intervallari tipiche della musica magiara vengono sovrapposte a strutture ritmiche asimmetriche, la tradizione europea viene coniugata con la selvaggia verginità del panorama sono ungherese. Quest’opera nello specifico ha il merito di inserirsi in quel generoso solco che ha portato all’emancipazione delle percussioni dall’effetto coloristico a cui le relega Rimskij-Korsakov nel suo trattato d’orchestrazione fino ad elevarle al rango di autonomia solistica: Le noces di Stravinskij nel 1923, Ionisation di Varèse nel 1933, i Carmina Burana di Orff nel 1936 e ancora i suoi Catulli Carmina nel 1940.

Il legame più stretto, tuttavia, è proprio con la Musica per archi, percussioni e celesta, di cui questo Concerto (e Sonata) rappresenta l’ideale seguito: l’indagine sulla ritmica si fa ancor più incisiva, ma soprattutto l’attenzione di Bartók è rivolta ai timbri, alle loro fusioni e sovrapposizioni, in cui si sfrutta la natura percussiva dei due pianoforti per affiancare a questi timpani e xilofono in prima istanza, a seguire il resto della poderosa batteria. Nella riformulazione concertistica, assieme alla Sinfonica di Milano si esibiscono come Arthur e Lucas Jussen ai pianoforti e Viviana Mologni e Simone Beneventi alle percussioni soliste. Partitura di elevatissima difficoltà, è presa dal verso giusto sin dalle prime battute dell’Assai lento iniziale, un lunghissimo movimento in forma sonata in cui Bartók indugia in delle meravigliose complicazioni polifoniche, intarsiate dalle percussioni dialoganti con i due strumenti a tastiera; da notare come la parità fra pianoforti, timpani e xilofono venga ribadita in modo inequivocabile, ad esempio nell’inciso in cui i quattro esecutori intonano a cascata l’intervallo la#-fa#. L’orchestra stessa assume un atteggiamento percussivo, anche in virtù di scritture non frequenti nel catalogo bartokiano (ad esempio gli archi col legno); tuttavia, è fisiologico che le luci siano tutte puntate sui quattro solisti, con Mologni e Beneventi che percuotono il nervo acustico dello spettatore e non gli consentono di distogliere lo sguardo nemmeno per un istante, mentre i due Jussen si esibiscono in una lettura a dir poco scapigliata di questa pagina straordinaria. La proposta di Santonja si fa ancor più affilata, ancor più scarna per rendere al meglio l’impatto di un Bartók che con ogni evidenza ha impiegato ogni strategia per andare oltre i propri limiti e l’esito non potrebbe essere più felice: i ritmi di danze bulgare, i tachicardici spostamenti degli accenti, la ricerca di una pan-percussività, l’ironia caustica, il tutto sostenuto dalla visione coerente di Santonja, sono questi gli elementi che rendono l’esecuzione preziosa e destinata a restare nella memoria di chi ha potuto assistere.

La Coquette dalla Suite n. 2 “Silhouettes” di Anton Arenskij è il quieto bis dei fratelli Jussen che, tra grandi parentesi di applausi condivisi con i colleghi percussionisti, consente di arretrare fino al 1877 per la Seconda sinfonia di Johannes Brahms, titolo che rappresenta un autentico punto di svolta nel catalogo del compositore: i suoi primi lavori di un certo rilievo con l’orchestra gli avevano richiesto particolare meticolosità (le Variazioni su un tema di Haydn, prima scritte per due pianoforti e poi pazientemente orchestrate) o hanno avuto una gestazione davvero lunga. Questa nascita “di getto” ha lasciato evidenti segni nella scrittura, che non evoca mai l’impronta del caos o del disordine, ma nel suo nitore quasi classicheggiante si mostra intrisa di un’energia magmatica, un ribollire tematico che porta la penna dell’autore a dei bruschi cambi di rotta nella gestione delle sezioni e della stessa successione motivica, cosa che si può osservare nella climax quasi ingiustificabile dell’ultimo movimento che culmina in una chiara reminiscenza del finale della Quinta beethoveniana. Questo continuo aggrumarsi della forma in nodi, tuttavia, non esclude né eleganza né gusto per l’architettura, infatti l’intero impianto sinfonico si regge su quell’inciso di tre note che appare nella prima battuta del primo movimento, enunciato da violoncelli e contrabbassi; Santonja ha chiarissima la costruzione di questo acerbo ma fondamentale esperimento sinfonico, con la sua direzione si ha quasi una percezione visiva dell’intricata ragnatela di rimandi e collegamenti tessuta dalla Sinfonica di Milano e l’orchestra si appropria volentieri di questo messaggio enunciando con singolare chiarezza tutti i motivi salienti, compreso il celeberrimo Wiegenlied (la Ninna nanna) che viene citato espressamente nel primo movimento, che lentamente vengono sviluppati nel corso dei quattro movimenti. Splendidi i canti a solo del corno, che appaiono come veri e propri gesti-segnale in momenti specifici della partitura, così come si apprezza la bella coesione tra archi e strumenti a fiato, caratteristica di alcuni dei passi più noti della Sinfonia (ad esempio, l’attacco del secondo movimento); in questa amalgama di corde e colonne d’aria dal gusto quasi organistico è difficile non notare la capacità della Sinfonica di Milano di restituire quella caratteristica trasparenza della scrittura di Brahms, che consente di poter udire sia l’intera trama orchestrale sia le sue singole componenti interne. Ben colta anche la natura davvero peculiare di questa Sinfonia, contesa tra un’aura di serenità e le «ali nere battono costantemente sopra di noi», un sentimento di lutto che però contiene in sé una certa dolcezza.


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