La classe del teatro
di Roberta Pedrotti
In splendida forma, Pietro Spagnoli festeggia fra gli applausi del Teatro Rossini i trentacinque anni dal debutto al Festival di Pesaro.
PESARO 13 agosto 2024 - “Nel cor più non mi sento brillar la gioventù”: a trentacinque anni dal suo debutto venticinquenne al Rossini Opera Festival, Pietro Spagnoli apre il suo recital con l'aria di Pistofolo dalla Molinara di Paisiello. Quando apre bocca, però, i fatti dicono altro: ci sono maturità ed esperienza, ma né stanchezza né usura. Il tempo lo ha accompagnato senza ferirlo e la voce suona salda, libera negli acuti, sempre pronta a piegarsi alle intenzioni dell'interprete, perché è lì che si vede l'artista, nel recitar cantando, nel padroneggiare lo strumento per mettersi al servizio del personaggio.
Il programma attraversa quasi due secoli di musica e dopo il Settecento di Paisiello Spagnoli offre un saggio della sua classe nelle arie da camera di Bellini (Dolente immagine e Ma rendi pur contento). Rossini gli dà modo di giostrare la chiarezza del sillabato con Don Magnifico e Don Geronio, mentre Mustafà ribadisce la disinvolta coloratura: sempre con dignità, qui la sicumera del bey, là la bieca vanagloria del patrigno o l'esasperazione del marito. Nei bis il quadro sarà completato da un Figaro libero da zavorre istrioniche.
L'abilità e il buon gusto del cantante attore si ritrovano nell'accostamento fra il monologo dell'onore di Falstaff e quello delle corna di Ford. La trasformazione da un personaggio all'altro, dal pingue sir John al gelosissimo consorte di Alice non è una manifestazione di virtuosismo istrionico, ma la conferma che il teatro si fa nei dettagli, senza stereotipi e che moltissimo si può dire anche con poco. Il pubblico lo capisce bene e festeggia con crescente affetto uno degli storici beniamini del Festival.
L'omaggio a Puccini, con l'insidiosa aria di Guglielmo dalle Villi, completa il quadro di una recitazione che può e deve andare a braccetto anche con il lirismo e l'abbandono cantabile, nella dolcezza inquieta e disperata di un padre che maledice e prega, prova dolore rabbia e vergogna, chiede vendetta e perdono. Tutto un altro mondo – che semmai si ricollega alla tradizione buffa rappresentata da Don Geronio – è quello del monologo di Beaupertuis dal Cappello di paglia di Firenze, ma d'altra parte è pur chiaro che Rota tiene ben saldi i legami con Rossini, Verdi e Puccini, ne fa tesoro e fa teatro con ogni elemento melodico, ritmico, dinamico. Giulio Zappa è, allora, un complice fondamentale, peraltro già in evidenza dei due interventi per pianoforte solo accuratamente scelti: le variazioni di Beethoven su “Nel cor più non mi sento” e la Barcarola in La min. op. 15 di Casella, che nella definizione suggerisce “quasi una Serenata”. E sono proprio serenate – della tradizione romana – i due fuori programma offerti da Spagnoli e Zappa a un pubblico sempre più caloroso. Una sorta di ritorno alle origini, sia per i natali del cantante sia per la matrice popolare che accompagna la storia della musica vocale e rappresenta una fonte d'ispirazione, un senso di innata, spontanea ma profonda poesia.
La commozione percepita sul palco, la franca emozione è controllata con la maturità di un tempo che pare aver dato senza togliere, ma pure traspare a raccontare l'amore per il teatro musicale e l'empatia con il pubblico.