Serkin, la forza gentile
di Lorenzo Cannistrà
Trent’anni fa, l’8 maggio 1991, scompariva uno dei più illustri pianisti del ‘900, Rudolf Serkin. Boemo di nascita, enfant prodige, viennese di formazione, costretto come molti grandi artisti ebrei del tempo ad emigrare negli Stati Uniti durante gli anni ‘30, si affermò come uno dei più suggestivi interpreti degli autori classici, stabilendo nuovi stardard qualitativi, in particolare nell’opera di Beethoven. Naturalizzato americano, divenne una delle personalità più influenti anche nel campo della didattica, come insegnante prima e prestigiosa guida poi del Curtis Institute di Philadelphia e fu instancabile animatore musicale e culturale attraverso l’istituzione del Marlboro Festival, che ha plasmato generazioni di eccezionali musicisti. Il suo stile puro e potente, l’intransigenza ed etica di artista e di uomo ne fanno una delle figure più eminenti di musicista di tutto il XX secolo.
Probabilmente gli appassionati di musica per pianoforte ricordano il 1991 come un annus horribilis. Nel volgere di poche settimane scomparvero Rudolf Serkin, Wilhelm Kempff e Claudio Arrau. Pochi anni prima erano scomparsi Horowitz, Gilels e Rubinstein, e di lì a poco si sarebbe dato l’estremo saluto anche a Richter e Michelangeli. Un’intera generazione di eccezionali interpreti, nata tra la fine dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento svaniva lasciando al mondo un’eredità con cui ogni ambizioso interprete avrebbe dovuto fare i conti, cercando di uguagliare determinati livelli esecutivi, oppure semplicemente lasciando perdere e cercando un’altra strada per affermarsi come interprete di una qualche originalità.
Non è impresa facile, ricordandolo a trent’anni dalla morte, parlare del grande Rudolf Serkin, e ciò principalmente a causa delle contrastanti pulsioni che hanno animato il suo modo di essere artista.
Non vi è alcun dubbio sul fatto che Serkin sia stato un talento precocissimo, un autentico bambino prodigio, imparando presto a suonare con ferrea determinazione in un ambiente familiare peraltro non ideale. Nato nel 1903, già negli anni dieci del ‘900 debuttava in pubblico e con orchestra, e repentina fu la sua affermazione, prima nell’ambiente viennese, a cui deve larghissima parte della sua formazione (ebbe tra gli altri quale maestro di composizione Arnold Schönberg), e in Europa poi. Ciononostante, il fecondo sodalizio umano e artistico con Adolf Busch, incontrato quando Serkin era solo diciassettenne (e che diventerà suo suocero), contribuì a mantenere un marcato taglio cameristico alla sua formazione pianistica.
Le origini ebraiche furono involontariamente la causa della sua affermazione negli Stati Uniti, dove si trasferì con la famiglia e dove conobbe un travolgente successo debuttando a New York, alla Carnegie Hall, sotto la bacchetta di Toscanini, uno degli artisti da cui Serkin venne più influenzato. In territorio americano potè non soltanto consolidare la sua fama di interprete, ma anche gettare i semi della sua importante attività didattica al Curtis Institute di Philadelphia, dove rimase impresso nella memoria di generazioni di studenti come insegnante (e direttore) esigentissimo e di poche parole. Non meno importante è stata l’attività di Serkin come co-fondatore e poi, alla morte di Busch, “sovrano alla pari”, del Marlboro Festival, elaborando uno dei programmi estivi più prestigiosi al mondo per musicisti professionisti, ambientato nella bellezza rurale del Vermont e improntato ad una gestione familiare e generosa nei rapporti con i colleghi (Serkin, nonostante fosse già molto famoso, serviva i pasti o girava le pagine, in un clima totalmente informale).
Le molteplici attività portate avanti parallelamente dal pianista boemo non gli facevano peraltro mai perdere di vista la sua dimensione di interprete ormai acclamato in tutto il mondo, e amato anche per le sue inusuali caratteristiche di strumentista.
È infatti generalmente condivisa l’opinione che Serkin non fosse un pianista “naturale”. Probabilmente questa opinione deriva dal fatto che mentre in alcuni pianisti la riuscita dei passaggi più difficili deriva da una innata facilità “di mano”, per altri invece la vittoria passa attraverso il trionfo dello studio sulla natura. Serkin apparteneva alla seconda categoria di pianisti. Le sue mani erano grandi e pesanti, le sue dita straordinariamente spesse, il che causava difficoltà quando doveva suonare negli spazi sottili tra i tasti neri. Così il Nostro praticava incessantemente scale e arpeggi, pur senza enfatizzare, nel suo credo musicale, l’importanza della tecnica fine a se stessa. Il suo approccio, anche scenico, allo strumento era quello di un domatore di leoni, dando a volte l'impressione che lui e il pianoforte stessero combattendo una battaglia. Era magro, nervoso, gemeva, ansimava e canticchiava durante l’esecuzione. "Bookish" l’ha definito qualcuno per via degli spessi occhiali e i pochissimi capelli sparsi in ciuffi bianchi e selvaggi; “he could have been taken for a piano-playing Dr. Seuss”, così affermò, nel suo necrologio, il New York Times.
Ma anche sulle sue caratteristiche di interprete (non ovviamente sul suo valore) non vi è mai stata uniformità di vedute.
La definizione di "puritano appassionato" data Jeremy Siepmann ben compendia le opposte quelità del pianista boemo. Da certa critica egli era inserito di diritto nella scuola “tedesca”, il che significa controllo, obiettività, antisentimentalismo e prevalenza del raziocinio sull’impulsività. Da questo punto di vista Serkin era quanto di più lontano dall’one-man-show Horowitz (suo grande amico), e molto più simile al guru Schnabel. A ciò si aggiunga la sonorità talvolta dura e non bellissima, paragonata da un critico al tungsteno, altro che perla o diamante. Eppure dalle sue interpretazioni emerge sempre un forza tellurica, a stento trattenuta in una costruzione formale grandiosa e coerente. Ed è soprattutto in Beethoven che tale mix di logica e irruenza emerge con assoluta evidenza. È facilmente rintracciabile su YouTube un frammento del Rondò dalla sonata Waldstein suonato da un Serkin cinquanta-sessantenne, che passa con assoluta unità d’intenti dall’arcana dolcezza della sezione centrale alle rocciose ma non velocissime terzine dell’ultimocouplet per finire poi con un delirante Prestissimo che non è praticamente possibile ascoltare a questa pazzesca velocità da nessun pianista di ieri e di oggi. Ed è proprio la velocità a fare la differenza quando conta, come nel Rondò Capriccioso di Mendelssohn; e ciò è tanto più significativo in un pianista che sempre stato unanimamente considerato nemico dell’effetto facile. Non è possibile, chiaramente, passare in rassegna le meraviglie della sua discografia, davvero vasta, ed incentrata sugli amati classici, Bach, Mozart, Beethoven, Schubert, ma anche Brahms. Alcune lacune sono evidenti e spiegabili con la sua intransigenza (l’attività di docente e di direttore del Marlboro Festival lo fece desistere dal realizzare l’integrale delle 32 sonate di Beethoven) o semplicemente inspiegabili (l’assenza di incisioni di opere per pianoforte solo di Schumann). Ricorderemo qui soltanto l’interpretazione di straordinaria bellezza, intimismo e raffinato camerismo della selezione di Concerti per pianoforte e orchestra di Mozart, con Claudio Abbado. Difficile trovare un primo movimento del Concerto K 488meglio compreso nella sua primaverile dolcezza, che fiorisce nonostante la consapevole rinuncia alla brillantezza anche nei passaggi più serrati, miracolosamene “cantati” anch’essi. Per capire Serkin probabilmente è necessario aver avuto testimonianza della sua umanità. La gentilezza dei suoi modi, l’umiltà, la capacità di mettersi a disposizione di studenti e colleghi erano universalmente apprezzate, finanche da perfetti sconosciuti (come la lettera ad un ignoto collega che gli chiedeva lumi circa un problema tecnico nel Terzo concerto di Beethoven, e la divertita risposta ad un bambino di nove anni, anch’egli di nome Rudolf, che chiedeva all’illustre pianista se avesse mai avuto problemi per via del nome che portava….). Serkin morì a 88 anni nella sua fattoria di Guilford, nel Vermont. Aveva sempre amato gli animali, e, nella sua semplicità, andava orgoglioso dei suoi successi come produttore lattiero-caseario del New England. Nel suo ultimo concerto suonò le tre ultime sonate di Beethoven, come un perfetto commiato dalla vita e dalla musica, e che secondo il critico Harold Schönberg rappresentavano l'idea che aveva Serkin di un grande programma. E proprio una frase tratta dal libro dello stesso Harold Schonberg, "The Great Pianists", può sintetizzare ciò che Serkin ha voluto dire in una vita spesa per la musica: "Il secolo non ha visto un pianista di maggiore probità o ideali più puri".