Creare la tradizione
di Roberta Pedrotti
Idolatrato, ma anche detestato, Franco Zeffirelli scompare come icona e simbolo di un modo di intendere l'opera, il teatro e l'arte, ma offre anche lo spunto per una considerazione storica sul concetto stesso di tradizione, come quella che il regista fiorentino è arrivato a plasmare secondo il proprio ideale estetico.
Franco Zeffirelli era, è, e probabilmente sarà, una bandiera, il simbolo di un certo modo di intendere l'opera, il teatro, l'arte. Non è un ruolo che ha assunto suo malgrado, anzi: ne era certamente convinto e consapevole, perfino fiero. Non mancava di ribadire la sua posizione, di ergersi a custode e profeta del bello, difensore del proprio ideale contro quelli che apostrofò come “giovinastri” (nello specifico si trattava di Robert Carsen, che in effetti ha trentun anni meno del collega fiorentino, ma proprio un ragazzino non lo si poteva definire, né tantomeno uno sprovveduto).
Forse si era dimenticato che ancora nel 1979, Massimo Mila aveva scritto proprio di lui: “La regia di Zeffirelli, che talvolta non scherza in fatto di trovate balzane, in questo caso è piena di rispetto, e soprattutto d'affetto per l'immagine tradizionale dell'opera” [La bohème]. Zeffirelli “balzano”? Zeffirelli che non si identifica tout court con “rispetto” e “tradizione”, ma addirittura sorprende proprio per aver firmato uno spettacolo “pieno di rispetto […] per l'immagine tradizionale dell'opera”? Ebbene sì, anche così si evolve la carriera di un artista in rapporto ai tempi. D'altra parte anche Carducci inneggia a Satana e al progresso irruente, prima di essere adottato e istituzionalizzato dalla borghesia dell'Italia umbertina.
Rispetto, tradizione, d'altra parte, non sono concetti immutabili nel tempo, ma legati alla percezione dell'opera d'arte nel momento storico. L'Orontea di Cesti (1656), Die Zauberflöte di Mozart (1791), Mosé in Egitto di Rossini (1818-19), Aida di Verdi (1871) e Akhnaten di Glass (1983) si svolgono tutte nell'antico Egitto e tutte danno una rappresentazione dell'Egitto considerata credibile, tradizionale, “rispettosa” dai rispettivi autori, ma sono tutti antichi Egitti diversi, molto diversi. Così la tradizione zeffirelliana forse non era tradizione prima di lui, che ha creato, codificato la propria idea di teatro musicale, pullulante di dettagli, magniloquente, melodrammatica, sfarzosa.
Da quell'idea Zeffirelli non è stato fagocitato, non è stato vittima di una sua cristallizzazione, perché era chiara la sua determinazione, perfino negli ultimi tempi: aveva creato una tradizione, uno stile e ne era diventato il consapevole, orgoglioso, combattivo alfiere, il simbolo, la santa reliquia vivente.
Era stato giovane anche lui, era stato “balzano”, creativo e a questo preferiamo pensare oggi. Certo, di una figura carismatica, amata e odiata, dalla personalità fortissima come la sua è facile ostendere ancora una volta l'icona all'adorazione – o al rifiuto che pure ha ispirato. Tuttavia, può essere più interessante pensare al percorso artistico che ha creato quell'icona, perché Zeffirelli ha lasciato un segno, e uno spunto di riflessione, anche in chi di Zeffirelli non è devoto. L'icona, per diventare tale, ha dovuto creare, essere giovane e “balzana”, dire la sua. Altrimenti si sarebbe confusa nella folla, senza diventare solista nella storia.
Sempre Mila, che non lo amava e anzi gli era in tutto lontano mille miglia, disse di apprezzare e condividere “l'assenza totale di quella peste teatrale che sono i 'simboli'”, il suo puntare alla concretezza della rappresentazione e far sì che Otello, Jago e Desdemona non fossero altro che Otello, Jago e Desdemona. Cose che, per funzionare davvero in modo interessante, devono essere fatte dannatamente bene, proprio come dannatamente bene devono essere sviluppati simboli e paratesti.
I classici nascono dalla fantasia degli antichi, poiché tutti gli antichi che ricordiamo sono stati giovani e innovatori. La longevità di Zeffirelli lo ha visto sopravvivere come pochi alla gioventù della sua arte e ha fatto sì che lui stesso potesse contemplarsi come classico, e dalla propria classicità distillare un ideale a cui essere fedele. Fedele più ancora che al testo stesso, tant'è vero che nelle sue produzioni operistiche, in teatro o per il cinema, qualche libertà c'è (almeno per chi predica l'invariabilità inderogabile delle ambientazioni, Pagliacci collocati una trentina d'anni dopo la morte di Leoncavallo dovrebbe essere un'eresia), qualche taglio musicale in ossequio al progetto estetico pure. È l'ideale del sogno, del melodramma melodrammatico come non mai, iperbole ed esaltazione di sé nello sfarzo, nel monumento, nella massa, nel formicolìo di un palcoscenico-mondo che può popolarsi all'inverosimile (e, nei casi migliori, con cura maniacale del dettaglio), nella fotografia irrealistica del suo cinema.
Non sarà un caso che, invece, l'ultima zampata del genio “balzano” giunga quando non mostra, ma nasconde il trionfo di Aida, a Busseto. Il regista consacratosi all'eccesso visivo, e in questo culto proclamatosi custode della tradizione del bello, il profeta delle composizioni di ori e di folle lascia ora immaginare la parata di Radames vincitore.
Un'ultima zampata, negli anni di gloriosa ostensione del marchio zeffirelliano che sopravvive a sé stesso, perché da creazione e fantasia è diventato classico, tradizione. Perché è più facile che, nel tempo, per quell'ideale di calligrafica e abbagliante bellezza, si sia lasciata in evidenza magari più la superficie luccicante di mille decori rispetto alla sostanza dell'attenzione maniacale a far sì che Desdemona sia veramente Desdemona: non un simbolo ma nemmeno una sagomina addobbata da incastonare in un sogno visivo.
Divenuto a sua volta tradizione, il fiorentino sanguigno ne è fiero, ma non dimentichiamo che se è morto nella gloria della propria santa icona, è perché quella tradizione l'ha creata anche da artista “balzano”, ai suoi tempi. «A ogni epoca la sua arte, all'arte la sua libertà» era il motto dei Secessionisti viennesi, e, perfino nella sua estrema opposizione finale sotto i vessilli di bellezza rigore e tradizione, anche la carriera di Franco Zeffirelli, che nella propria epoca ha imposto la propria libertà e l'ha trasformata in un feticcio stilistico, ce lo conferma.