L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Un concerto (neo)classico

 di Stefano Ceccarelli

Oedipus rex di Igor Stravinskij, un'assoluta rarità per questa sala, viene eseguito in un bel concerto all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Fra il cast spicca, per fama e bravura, Sonia Ganassi (Giocasta) – e il nostro rammarico è tutto per la defezione di Evgenij Nikitin (Creonte-Messaggero). Se si prescinde da una performance assai sottotono di Mati Turi (Edipo), l’esecuzione è stata più che buona. Il direttore Sakari Oramo, che affronta con energia la difficile e desueta partitura stravinskiana, si trova a suo agio anche nell’elegante Sinfonia n. 22 “Il Filosofo” di Franz Joseph Haydn.

ROMA, 29 febbraio 2016 – Capita una volta ogni quattro anni il giorno del compleanno di Gioachino Rossini: quindi gli si tributino – prima di tutto, anche se la sede non è delle più opportune! – i dovuti auguri per il genetliaco. Rossini che, peraltro, s’intendeva, e non poco, di Edipo: sue le musiche di scena per una traduzione italiana dell’Edipo a Colono. Del resto, Edipo non ha mai smesso di affascinare: e affascina ancora. Era il 1927: Stalin cacciava dalla dirigenza del partito sovietico Lev Trockij, che aveva, assieme a Lenin, acceso la fiamma rossa della rivoluzione d’ottobre; Mussolini, saldamente al governo, si apprestava a totalizzare definitivamente lo stato italiano; Hitler, ancora quasi sconosciuto e a capo di un partito di estrema destra, aveva da qualche anno fallito un golpe a Monaco; Parigi si godeva i privilegi dell’effimera pace. In questo clima, terrorizzato sì dagli orrori della Grande Guerra ma speranzoso di non rinnovarli, incurante del male in arrivo, Stravinskij era in pieno fermento neoclassico – per accordarci su ‘neoclassico’ rimando a F. Serpa (dal programma di sala): «una avanguardia antiottocentesca, alla quale le arti classiche potevano fornire solo contenuti, figure e racconti, non esempi formali». Stravinskij, in cerca di un contenuto classico, scelse come soggetto l’Edipo re di Sofocle e come lingua il latino, lingua sacra e straniante, che gli consentiva di trattare una «materia non morta ma pietrificata, divenuta monumentale e immunizzata contro qualsiasi civilizzazione» (sue le parole).

Ma veniamo all’Oedipus rex che oggi, dopo quasi vent’anni, torna all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. La direzione del finlandese Sakari Oramo rende giustizia di un capolavoro di delicata calibratura: l’insidiosa trama ritmica (pullulante di slittamenti e sincopi) e timbrica è ben letta. Certo non siamo ai livelli delle registrazioni dell’autore stesso, di Ozawa o di Abbado (e pochi altri), ma il tutto riesce bene. Protagonista indiscusso è l’ottimo coro maschile dell’Accademia, che si conferma ancora una punta di diamante nel panorama mondiale. Lo s’è goduto nell’incipitario «Kaedit nos pestis», dove dà avvio a un canone dal sapore tenebrosamente arcaizzante; come pure nel «Delie, expectamus» e nel «Gloria», fortissimo e sicuro, anch’esso dal gusto sacralmente primitiveggiante, che chiude il I atto. La conclusione dell’opera, poi, vede il coro esprimersi terrifico, implacabile. Un’ovazione per il loro ottimo lavoro.

L’Edipo di Mati Turi è sottotono, il vero neo di questa produzione. L’estone è carente in volume, con un’emissione sovente indietreggiata o ingolata, altre volte schiacciata. Lo si percepisce bene fin dal «Liberi, vos liberabo a peste»; assai indietro è l’emissione su «Clarissimus» di «Pollikeor divinabo»; nel duetto con Giocasta è sovrastato dalla Ganassi: insomma, una performance certo da dimenticare.

Assoluta protagonista delle voci soliste è Sonia Ganassi, che interpreta con grande profondità il personaggio di Giocasta, cogliendone tutti i sentimenti. La sua aria «Nonn’erubeskite, reges» è straordinaria: la Ganassi disegna un nobile declamato, per poi lasciarsi trascinare dalla cangiante orchestrazione che disegna un controcanto dei legni sardonicamente ironico. Il vertice emotivo dell’aria culmina nella sconfessione degli oracoli («mentita sunt oracula»); l’entrata del coro nel finale e lo smagliante acuto sul nome dell’ex marito Laio sono una condegna conclusione. Magnifica e allucinata nel successivo duetto.

Al posto dell’atteso Nikitin, Creonte e il Messaggero sono cantati da Alfred Muff, che ha una distinta voce da basso/baritono (si muove meglio nel registro medio: sia i bassi che gli acuti sono troppo marcati e fissati nell’emissione): si preoccupa forse più di tirar fuori la voce che di tratteggiare i due personaggi – forse meglio nell’aria del Messaggero, dove si destreggia bene nello scalpitante ritmo orchestrale.

Ottimo il Tiresia di Marco Spotti che scolpisce un’eccellente parte: il suo ingresso in «Dikere non possum» è squillante, quasi fosse un centratissimo ottone, per non parlare dell’acuto finale su «regis est». Il Pastore di Simone Ponziani è complessivamente corretto, benché manchi di un carattere specifico (la voce chiara e abbastanza salda non gli evita qualche acuto uscito troppo indietro).

Sensuale la voce di Massimo De Francovich, nei panni del narratore: si sceglie una traduzione italiana alla bellezza dell’originale francese – prassi abbastanza comune: ricordo, per esempio, un Oedipus con Bernstein sul podio e il testo di Cocteau recitato in inglese; del pari, una celebre versione romana con Abbado (1969) vede Giancarlo Sbraglia recitare divinamente in italiano. De Francovich sceglie una lettura più coinvolta e marcata, dove l’interpretazione di Jean Cocteau era più dimessa, quasi da presentatore, ironicamente allusiva della capitolazione finale. Gli applausi sono numerosi: l’Oedipus è certamente piaciuto.

Il breve primo tempo aveva visto Oramo alle prese con la famosa Sinfonia n. 22 “Il Filosofo” di Haydn, un classico par excellence. La direzione è stata ottima: gli stacchi, i ritmi, l’agogica delle singole sezioni rese superbamente, con un’orchestra ridotta che suona benissimo e rende ancor più limpida la trama orchestrale haydniana. Eccellente versione, giustamente applaudita. Vedere a confronto due composizioni così normative delle singole correnti, il classicismo di Haydn e il neoclassicismo di Stravinskij, fa sorgere giusti dubbi sull’esigenza tutta umana di classificare per distinguere, adottando spesso espressioni più di comodo che di contenuto.


 

 

 
 
 

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