L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Presso al fuoco in un cantone

 di Andrea R. G. Pedrotti

Il mezzosoprano Aya Wakizono non fatica a imporsi per talento, raffinatezza e comunicativa in una produzione per il resto deludente del capolavoro rossiniano.

VERONA 31 gennaio 2016 - Dopo L'italiana in Algeri della stagione 2013\2014 [leggi la recensione] e Il barbiere di Siviglia della stagione 2014\2015 [leggi la recensione], arriva al Teatro Filarmonico di Verona anche La Cenerentola , a chiudere – per ora - una sorta di mini ciclo dedicato all'opera buffa di Gioachino Rossini. Se il primo anno la produzione era stata soddisfacente per la quasi totalità dello spettacolo, il secondo anno sicuramente per la qualità dei solisti, ora ci simo trovati innanzi a una realizzazione per lo più deludente.

L'allestimento appartiene alla Fondazione Arena ed è stato realizzato in collaborazione con Opera Futura. Dal punto di vista della programmazione non si può criticare la scelta di affidarsi a un'associazione veronese (quindi a chilometro zero) che portava in dote un impianto scenico dagli elementi sicuramente non costosi. Il palazzo di Don Magnifico è costituito da una serie di pannelli squadrati, stilizzati e bidimensionali, di colore bianco o pastello chiaro, con scale che vanno a perdersi nel nulla, anch'esse di colori pastello, ma tendenti a tinte calde, come rosso o viola. Pochissimi movimenti di regia, che evidenziano una mimica caricaturale, che poco o nulla ha a che spartire con il libretto o, più in generale, la trama dell'opera. Mosse da samurai da parte di Clorinda e Tisbe per minacciare Cenerentola, la quale si prodiga in una lunga serie di gesti tanto frenetici quanto insensati. Il coro si affaccia sulla scena per cantare “Oh, figlie amabili di Don Magnifico” per metà in abiti da capocuoco, per l'altra metà in abiti da gendarmi napoleonici, con alcuni dei componenti recanti il vistoso copricapo fra le mani, altri sulla testa. Il giungere di Don Ramiro è piuttosto anonimo, anche per il fatto che il principe e la futura sposa interagiscono poco o nulla, lui poggiato a lato della palco, lei in proscenio, seguitando nella bizzarra gestualità che caratterizza tutta la lettura registica del personaggio.

Il padre delle sorellastre appare dal ruotare di una parte della scenografia all'interno di un camino, stringendo fra le mani il pupazzo di un asinello, forse feticcio vudù di se stesso, considerato il sogno che avrebbe narrato poco dopo, oppure quale suggestione del suo inconscio. L'altro baritono (Dandini), invece, fa il suo ingresso senza troppo clamore, interpretando tutta la cavatina completamente immobile sulla scena. Già in questo primo quadro notiamo diversi interventi del corpo di ballo areniano con tre Cenerentole a far da controscena all'azione. L'aria di Alidoro, che chiude la parentesi del primo atto nel maniero di Don Magnifico, vede come elemento di rilievo il solo apparire di una carrozza, che parrebbe provenire dalla Silicon Valley, a forma di zucca. Non abbiamo compreso precisamente se l'accensione della stessa per pochissimi istanti fosse una scelta voluta o un errore, tuttavia lo spegnimento delle luminarie ha creato qualche istante di oscurità che ha celato le danze di sfondo. Minuti cambiamenti nel secondo quadro. che comunque occorrono a mutare radicalmente l'ambiente, con numerosi interventi del corpo di ballo (questa volta anche maschile) durante l'aria di Don Magnifico “Intendente, direttor”. Finale d'atto affidato ai movimenti del corpo di ballo accompagnati da una certa staticità dei solisti, posizionati su una balconata centrale. Secondo atto simile al primo, senza particolari mutamenti nella caratterizzazione, o un particolare scavo psicologico dei personaggi. Finale con l'unico cambio scena di rilievo, ossia una bianca chiesa battista, con due alberi di ulivo illuminati ai piedi di una scalinata posta innanzi al tempio religioso, cornice degli sponsali fra Angelina e il principe di Salerno.

Delle scene di Franco Armieri abbiamo parlato durante la disamina della regia di Paolo Panizza. I costumi di di Valerio Maggione si inquadrano in un tardo settecento, con qualche aggiunta sgargiante e variopinta negli abiti di Clorinda e Tisbe. Il più riconoscibile risulta l'abito di Cenerentola, pressocché identico (per tinta e foggia) a quello indossato dalla protagonista del celeberrimo lungometraggio per cartoni animati della Disney.

La compagnia di canto, proveniente per la quasi totalità (sono eccettuati Don Ramiro e Alidoro), dall'accademia della Scala, ha come punta di diamante l'ottima Angelina-Cenerentola di Aya Wakizono. Il mezzosoprano giapponese si distingue per la voce pastosa, il bel timbro e la sicurezza d'emissione, oltre a una dizione impeccabile. Sicura nella coloratura del rondò finale risulta, altresì, miglior attrice del cast, ergendosi per stile ed eleganza, senza, tuttavia, difettare di espressione. Non all'altezza dell'amata il Don Ramiro di Pietro Adaini, dotato squillo luminoso in acuto, ma meno sicurezza negli altri registri. La linea di canto e il fraseggio sono perennemente inespressivi, con una totale assenza di accenti e sfumature, nonché molti i problemi nell'emissione del mezzo-forte. Molti suoni sono portati nel naso e la pronuncia delle sibilanti nei concertati non è sicuramente ottimale. Sicuramente il mezzo è notevole, ma necessita ancora di moltissimo studio. Bene il Dandini di Modestas Sedlevicius, il quale, pur dovendosi piegare a una notevole staticità scenica, canta molto bene il ruolo, senza particolari difficoltà nell'affrontare le asperità della scrittura rossiniana. Considerata la giovane età riteniamo che ci siano, anche per lui, notevoli margini di miglioramento, anche in merito al registro vocale di appartenenza. Baritono anch'egli, Giovanni Romeo è un Don Magnifico deludente, in perenne difficoltà d'intonazione, con numerosi problemi nella gestione dei fiati e frequenti errori nella scansione del testo di parole e musica. Simon Lee non avrà sicuramente Rossini come suo autore d'elezione: il colore è puramente verdiano, ma la gioventù gli consente di avere ancora una buona elasticità in una voce votata certamente ad altro repertorio.

Non all'altezza le sorellastre, Chiara Tirotta (Tisbe) e Cecilia Lee (Clorinda).

Per la prima volta siamo costretti a notare la negativa prestazione delle maestranze dell'Arena, a partire dal corpo di ballo, notevolmente appesantito nelle movenze (molti sollevamenti sono lenti e macchinosi) e con movimenti che presentano una sincronia accettabile solo quando i passi siano precisamente comandati dalla musica. La coreografia di Lino Villa appesantisce spesso l'azione, ma nella compagine scaligera manca la fluidità, l'eleganza e la morbidezza con la quale ci aveva deliziato negli ultimi anni. Discorso simile per il coro, diretto da Vito Lombardi, con i tenori non proprio in gran forma e una prestazione complessiva sicuramente non permeata da stile e raffinatezza. Male anche l'orchestra, guidata con poca personalità da Sebastiano Rolli, che mantiene l'impeto dei lontani mesi estivi, tentando di avvicinarsi a uno stile più consono al titolo con la semplice dilatazione dei tempi. Sicuramente non all'altezza la prova dei legni, sino all'imbarazzante assolo dell'ottavino nel Rondò di Angelina. Le scene d'assieme evidenziano una palese scollatura fra buca e palcoscenico. Dispiace perché ricordiamo ancora con piacere Rolli, alla guida della stessa orchestra, offrire una prova di spessore in occasione della trionfale Maria Stuarda dell'aprile 2014 [leggi la recensione].

Al termine applausi per tutti a salutare il ritorno della collaborazione fra la Fondazione Arena e l'Accademia della Scala.

foto Ennevi


 

 

 
 
 

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