L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Trovò la poesia

 di Andrea R. G. Pedrotti

Olga Bezsmertna, Mimì, e Andrea Carroll, Musetta, illuminano con le loro interpretazioni la ripresa della Bohème nello storico allestimento di Zeffirelli alla Wiener Staatsoper.

VIENNA, 11 aprile 2019 - Alla base dell'emotività, della pulsione di ognuno di noi, sta quel desiderio proibito, trasgressivo, che ci è impossibile esplicitare e che cerca sfogo violento e dirompente. Sicuramente le due città che, culturalmente, dominarono l'Europa della seconda metà del XIX secolo furono Parigi e Vienna. La pulsione della prima stava nella ricerca del sacrificio, della seconda nell'erotismo. I viennesi sono una popolazione estremamente passionale, ma ritrosa, introversa, sfuggente per certi versi. Questa differenza fra Parigi e Vienna è nota, tanto che Freud, quando si recò in Francia e apprese le tecniche ipnotiche dal professor Jean-Martin Charcot, dovette mutarne la procedura per adattarla alla nevrotica introversione che anima le sponde del Danubio, e inventò il famigerato lettino.

Centotenta anni dopo, Vienna somiglia ancora straordinariamente a se stessa e, con La bohème, deve raccontare la Parigi che Puccini, Illica e Giacosa trasmisero la prima volta nel 1896.

Ancora una volta Vienna vince la sua sfida e con essa la Wiener Staatsoper. Il gusto che ritroviamo sul palcoscenico del massimo teatro cittadino ricalca quella che fu Parigi, con la sua poetica, intrisa di sfrontato erotismo palese, e non represso com'era alla corte degli Asburgo.

Ritroviamo questo nella deliziosa Mimì di Olga Bezsmertna, che riesce a trasmettere il personaggio. Rammentiamo che la “gaia fioraia” altro non era che una Grisette, cioè quelle ragazze che popolavano la Parigi ottocentesca, spesso operaie, ombrellaie ricamatrici e, all'occorrenza, prostitute, che vivevano sole, sovente accanto agli appartamenti di studenti, rampolli di famiglie agiate, con i quali intrecciavano brevi relazioni. La Mimì della Bezsmertna non entra nell'appartamento dei quattro sfaccendati amici ingenua e angelicata, come la romantica vulgata contemporanea vorrebbe, ma maliziosa, con un velluto nella voce intriso di sensualità, accentuato dalla lieve mimica di chi sapeva benissimo quale sarebbe stato il suo obbiettivo, nell'affollata soffitta.

L'abilità interpretativa della Bezsmertna sta nel trasformare la malizia in elegia nel quadro di Momus, drammatica consapevolezza nel terzo quadro, fino alla catastrofe del quarto. Le sue armi espressive migliori sono nella tenuta dei fiati e in una soffice emissione, capace di coinvolgere.

Accanto a lei, il contraltare dionisiaco femmineo di Musetta trova eccellente interprete in Andrea Carroll (già recentemente apprezzata Adina in questa stessa sala leggi la recensione), che si dimostra, ancora una volta, artista di grande personalità. Anche lei coglie l'essenza parigina: Musetta è Grisette che ambisce al ruolo di Lorette (l'evoluzione a cortigiana per le fanciulle che riuscivano ad avere “successo”) attraverso la tresca con Alcindoro, pur mantenendo un giovane amante (Marcello), anche questa usanza assai diffusa nella Parigi di allora. La Carroll rappresenta una Musetta ancora allo stadio di crisalide fra Grisette e Lorette: è sfrontata, ma con modi da ragazza di campagna, semplice e genuina. Nel mostrare il dolore alla caviglia, non compie un atto di seduzione feticista (come accade sovente), ma recupera quella rudezza di una ragazza, certamente disinibita, ma in maniera giocosa e mai malevola. Nessun appunto vocale per lei e lodi per l'espressività dell'accento che diviene struggente e intenso nel quarto quadro.

Convince meno il Rodolfo di Bryan Hymel, che, fatta salva una discutibile dizione italiana, presenta evidenti problemi nel solfeggio, specialmente durante il primo quadro, e nella zona di passaggio, durate tutta l'opera. La voce sarebbe naturalmente bella, così come lo squillo, ma le mende tecniche pongono numerose perplessità sulla sua resa complessiva.

Migliore, sul versante maschile, è, senza dubbio, il Marcello di Daniel Boaz, preciso nel canto, espressivo nel fraseggio e attore disinvolto. Accanto a lui si apprezza anche la bella prova di Ryan Speedo Green, particolarmente passionale nella drammaticità dell'aria “Vecchia zimarra”.

Bene anche lo Schaunard di Manuel Walser e il Benoit\Alcindoro di Wolfgang Bankl (eccellente Ochs nel recente Der Rosenkavalier - leggi la recensione). Parpignol era Dritan Luca, il sergente dei doganieri Dominik Rieger il doganiere Daniel Lökös, mentre la sentinella era Jeong-Ho Kim.

La notissima regia di Franco Zeffirelli, pur senza essere un allestimento geniale, funziona, fatto salvo per il solito sovraffollamento, comprensibile a Momus, meno per il piccolo corteo di ragazzini che accompagnano Schaunard e le sue provviste nel primo quadro. Zeffirelli, oltre la regia, ha firmato anche le scene, mentre i costumi erano di Marcel Escoffier.

La concertazione di Ramón Tebar funziona bene, grazie all'eccellenza dell'organico orchestrale a sua disposizione, ma il direttore dovrebbe essere più attento all'equilibrio fra buca e palcoscenico, considerando il rischio continuo di coprire i cantanti. Penalizza leggermente il soprano protagonista in “Mi chiamano Mimì” - in cui è costretto a forzare l'emissione sebbene con naturalezza, nell'aumento di intensità, anche emotiva, della frase “ma quando vien lo sgelo...” - e in “Donde lieta”.

Eccellente la prova del coro, specialmente fra i bambini, diretto da Martin Schebesta, parimenti a quello della sorprendente banda in scena.

Al termine gran successo per tutti, da parte di un teatro gremito da un pubblico lieto e commosso di aver ritrovato la poesia della Bohème parigina.

foto Michael Pöhn


 

 

 
 
 

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