L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Noseda propheta in patria

 di Antonino Trotta

Nel consueto concerto a sorpresa, Gianandrea Noseda, alla guida della Filarmonica Teatro Regio di Torino, raccoglie l’affetto incondizionato del pubblico che gli tributa una standing ovation.

Torino, 06 Maggio 2019 – La serata è bella fin da subito: applausi accoglienti al solo ingresso, platea gremita come purtroppo non sempre s’è visto in questa stagione e un affetto, in barba a chi sostiene che i torinesi stiano sempre sulle proprie, sincero e commovente. Si fatica tuttora a metabolizzare quella biografia aggiornata sul programma di sala dove i due estremi temporali, 2007-2018, sembrano interrompere con violenza un viaggio che forse avrebbe avuto ancora molte lande da esplorare. Egli stesso lo confida, in chiusura di serata: Il principe Igor di Aleksandr Porfir'evič Borodin – di cui poi si ascolteranno le danze polovesiane – in cartellone sarebbe stato motivo di vanto, così come Siberia, Wozzeck, Jenůfa, tanto chiacchierate, avrebbero assicurato al teatro sabaudo un ruolo di maggior interesse nel panorama lirico (almeno) nazionale e una fisionomia, senza alcun dubbio, più riconoscibile.

Fisionomia che anche nel procedere orchestrale della Filarmonica Teatro Regio di Torino si fa immediatamente familiare: così, con le orecchie velate da un pizzico di nostalgia, ci si riaffaccia a quelle concertazioni solide, vigorose, ricche di sfacciato geometrismo, a cui si era e ci si era abituati. Se le danze ungheresi n. 17, 20 e 21 di Brahms, le Danze di Galánta di Kodály o le danze slave n.2 e 3 di Dvořák – nella prima parte del concerto a sorpresa, quella meno sorprendente – volteggiano festose, in punta di piedi, tra colori sgargianti e agogiche euforiche, la Sinfonia n.2 di Borodin, dopo l’intervallo, tradisce aspirazioni ben più ambiziose. Il linguaggio direttoriale si articola adesso con un lessico assai ricercato, il fraseggio si piega tanto all’esplosione eroica e marziale, lampante nel primo tema dell’Allegro-Animato assai iniziale, quanto a un lirismo virile, ben pronunciato dal secondo tema o nel Trio del secondo movimento. Con sonorità taglienti e impasti timbrici asciutti l’orchestra s’inoltra spavalda nello scherzo, dove i ribattuti, cristallini, del corno, scandiscono l’inflessibile base ritmica. Anche l’Andante, costruito su una malinconica melodia pervasa da quel languore tipicamente orientale, s’inarca verso un epilogo glorioso, a cui prelude dalle prime battute, conservando appunto quelle arcate fiere già accennate nelle precedenti parentesi di distesa cantabilità. L’eccitazione popolaresca dell’Allegro finale trova poi la sua naturale evoluzione nell’ultimo capitolo del programma, le danze polovesiane dall’opera Il principe Igor, nell’ottica del quale anche la lettura della sinfonia s’è mossa. Accese da uno smagliante colorismo, ora delicate e sognanti, ora rutilanti e trionfali, le danze polovesiane non solo confermano la predisposizione per un certo tipo di repertorio, ma ribadiscono l’intesa tra direttore e orchestra: con gesto incisivo e sicuro Noseda ricerca un timbro qui, esaspera una sfumatura là, varia pesi ed effetti, impreziosendo, senza mai sacrificare il dettaglio di un solo strumento, una lettura che cavalca imperterrita l’onda di crescendo mozzafiato.

La standing ovation è allora incontenibile – a onor del vero, ci sarebbero stati altri appuntamenti, il concerto di Gatti o l’ignorato Elias, ad esempio, che avrebbero meritato lo stesso trionfo – perché, al di là del valore artistico, questa serata dai toni così graziosi e informali vuole rendere omaggio a un percorso di crescita durato più di dieci anni: Noseda rimane ancora profeta nella sua patria.


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