Il suono oltre la parola
George Petean è uno dei baritoni più apprezzati e richiesti a livello internazionale, conosciuto in Italia soprattutto per le sue interpretazioni di Simon Boccanegra a Roma con Riccardo Muti e di Ezio in Attila lo corso 7 dicembre alla Scala con la direzione di Riccardo Chailly.
Lo abbiamo incontrato a Vienna fra le recite dei Pagliacci alla Staatsoper [leggi la recensione] per una conversazione sulla sua carriera e il suo modo di intendere il canto e l'interpretazione.
Partiamo dall’inizio, da che tipo di famiglia viene? Avevate rapporti con la musica e l’opera in particolare?
Mio fratello è il baritono Alexandru Agache, che ha cantato in teatri molto importanti, Metropolitan, Royal Opera House, Scala di Milano. Ho cominciato a cantare ascoltandolo, anzi: mi sono proprio innamorato di questo mestiere, e ho deciso d'intraprenderlo a mia volta, grazie a lui. Mia madre in gioventù era una ballerina e mio padre è stato campione nazionale rumeno di pugilato, categoria juniores. È stato mio padre a darmi la volontà di essere il migliore. Ho fatto anch’io sport: tennis da tavolo, pallacanestro, calcio, di tutto.
Il suo percorso personale, invece, come ha avuto inizio?
Mi hanno mandato a una scuola di musica in Romania per imparare uno strumento: lì ho studiato sei anni di pianoforte e sette di trombone. Io vengo da Cluj-Napoca, l’unica città della Romania ad avere due opere nazionali, una romena e una ungherese. Entrambe le istituzioni, per una città di 350.000 persone hanno un ensemble di solisti, orchestra e coro stabili. Io sono stato nell’ensemble dell’opera romena circa due o tre anni.
Il suo debutto internazionale quando è avvenuto?
Fuori dalla Romania ho debuttato nel 2000 a Roma in una Bohème con due tenori splendidi, come Rolando Villazòn e Stefano Secco. Nel 2001 ho avuto un contratto ad Amburgo per un Elisir d’amore e dal 2002 mi hanno offerto di diventare stabile nel loro teatro. Sono stato il primo baritono dell’ensemble dal 2002 al 2010. Ho cominciato con un Don Carlos in francese: sono andato in scena senza prove. La versione in 5 atti con balletto, ma musicalmente era quella italiana tradotta. Poi ho proseguito con molti ruoli che sono ancora nel mio repertorio attuale.
Ha un repertorio piuttosto eterogeneo. Che cosa pensa della sua vocalità?
Il mio primo ruolo in assoluto è stato il protagonista in Don Giovanni, con sei recite in nove giorni, ma ora non canto più parti mozartiane. Sono molto attento al repertorio, ho una voce con una propensione al registro acuto: Lucia di Lammermoor o I puritani, che ho fatto tre anni fa, sono ruoli con tessiture un po’ basse per le mie caratteristiche. Comunque la mia estensione, anche nei gravi, è da baritono: per esempio ho sempre eseguito il La basso nel Ballo in maschera. Tonio, che sto cantando ora qui a Vienna, è un ruolo drammatico, ma ha delle parti cantabili. È molto importante, anche nel verismo, partire sempre dalla ricerca del più bel suono possibile, come fossimo un violino, un trombone o un pianoforte. Cantare con squillo e rotondità. Per capirci, io amo il canto di Luciano Pavarotti, Giorgio Zancanaro o Aureliano Pertile.
Ascoltandola si nota immediatamente una grande omogeneità fra i registri. Come gestisce la zona di passaggio?
Studio da molti anni proprio col maestro Zancanaro. Ho sempre avuto l’istinto di non pensare al passaggio, che non è uguale per ogni ruolo, ma allo stesso tempo ho studiato molto col maestro Zancanaro per far meglio girare i suoni. Nessuna delle vocali deve perdere squillo e rotondità: su questo era il migliore. Io penso che coprire troppo il suono non sia corretto, perché serve la giusta alchimia con la proiezione.
Quindi come gestisce l’emissione del suono?
Secondo me esistono dei punti fondamentali nel canto lirico: respirazione e voce di petto, cantare sempre sulla vocale scritta, tenere alta la posizione e impostare la voce. Lo squillo è solo il risultato: bisogna impostare la voce per chiudere la corda, che salendo in acuto va in tensione. Se non si imposta correttamente l’acuto non sarà mai corretto.
Una cosa di cui nessuno parla mai, ma per me è fondamentale, inoltre, è il vibrato, che però deve essere utilizzato nel modo giusto. È un elemento di espressività come in un violino. Quando cantiamo, dobbiamo rendere i sentimenti e le emozioni dei personaggi. Le parole non bastano: mi ripeto, la gamma espressiva non deve limitarsi al fraseggio vincolato esclusivamente al testo del librettista, ma dev’essere un autentico fraseggio musicale, esattamente come uno strumento. Siamo come uno strumento ad arco. Elina Garanca, per esempio, con cui sto cantando qui a Vienna, è bravissima in questo.
È utile in tutto il repertorio, da Monteverdi al verismo. Il vibrato è un elemento tecnico di cui non si parla mai, ma per me è fondamentale. Una stecca per me è la mancanza del vibrato nella voce.
Lei è un baritono spesso protagonista di grandi eventi. Ce ne vuole raccontare alcuni, magari a partire da Un ballo in maschera alla Bayerische Staatsoper [leggi la recensione]?
Zubin Mehta è uno dei più grandi direttori mai esistiti, Piotr Beczala e Anja Harteros hanno due voci straordinarie. Io sono da molti anni un grande fan di Anja: l’ho vista per la prima volta cantare in La Traviata col mio maestro e sono rimasto veramente impressionato. Poi ho avuto la fortuna di cantare proprio La Traviata con lei a Berlino. È una voce grande, molto importante, molto bella, una delle più belle degli ultimi anni; è molto versatile che fa molto bene sia il repertorio tedesco, sia quello italiano.
Il regista Johannes Erath voleva agire sull’interiorità dei personaggi. Nell’”orrido campo” io ero a letto a dormire e avevo già sognato il tradimento di Amelia: dovevo già sapere tutto di quello che era successo e che avrei visto di lì a poco: non dovevo essere sorpreso, ma deluso. Una delle regie più particolari che ho fatto nella mia vita fu una Lucia di Lammermoor all’opera di Amburgo: io dovevo essere un fantasma che si risvegliava nei magazzini del teatro e tornavo per ripassare l’opera che più avevo amato cantare nella vita. Eravamo tutti fantasmi e dovevo rendere la felicità nel dolore del personaggio, perché ero gioioso di tornare a poter cantare, ma un ruolo drammatico, come quello di Enrico, che, secondo me, è un personaggio disperato che cerca di trovare una soluzione alle controversie politiche che lo circondavano.
In Un ballo in maschera, invece, si giocava molto più sull’inconscio: dovevamo vivere come in due mondi, proiettati in uno specchio fra pavimento e soffitto, in un incrocio di sogni dei personaggi. Dopo “l’orrido campo”, l’interazione fra noi era esattamente quello descritto nel libretto. È stato difficile perché bisognava interpretare una seconda parte in una maniera tradizionale, mentre la prima in senso inconscio.
Passiamo a Les vêpres siciliennes [leggi la recensione], sempre alla Bayerische Staatsoper.
Mi ha aiutato molto aver interpretato da poco Il duca d’Alba, che ho anche inciso: sostanzialmente la storia e l’evoluzione psicologica del mio personaggio è la stessa. È un ruolo che mi piace molto, un tiranno, ma che diventa più umano nel momento in cui ritrova il figlio. Non so se avesse mai amato qualcuno prima, sicuramente non la madre del bambino. Ora trova l’amore nel figlio e per lui si sacrifica. Anche musicalmente Il duca d’Alba e Les vêpressi somigliano. Vocalmente è molto difficile: l’aria, per esempio, è scritta molto acuta, ma bisogna raffigurare un sogno: l’insidia sta nel cercare il colore giusto.
Il direttore d’orchestra Omer Meir Wellber ha una grande personalità e un grande talento, infatti sta facendo una grandissima carriera. È stata una bellissima esperienza lavorare con lui: abbiamo scoperto assieme quest’opera. Io non posso dire che sia più bella la versione italiana, rispetto a quella francese che abbiamo fatto, è solo questione di gusti.
L’inaugurazione della Scala [leggi la recensione]?
Io ho saputo molto poco prima che avrei fatto la prima alla Scala, avrei dovuto fare un Trovatore a Chicago, ma avevo avuto un problema personale ed ero ritornato. Le cose stavano andando meglio e mi è arrivata questa bellissima proposta. Anche il mio maestro lo cantò con Samuel Ramey e il maestro Muti alla Scala, per questo la soddisfazione era ancora più grande. Dovrei dire la soddisfazione più bella, ma se penso al Simon Boccanegra col m° Muti e ad altre esperienze che ho vissuto, non credo non sia giusto fare una classifica. Non debuttavo il ruolo, l’avevo già fatto in concerto, poi qui a Vienna e a Montecarlo. È stata veramente un’esperienza che non avrei mai sperato.
Mi sono trovato molto bene con Chailly, che aveva dei tempi molto adatti alle mie caratteristiche e sono stato felice che abbiamo fatto moltissime prove musicali. Con Ildar Abdrazakov mi trovavo benissimo, è un bravissimo collega e quando ci si può fidare in palcoscenico l’uno dell’altro, tutto è più tranquillo.
Poi Ildar è un amico e ho una grande stima per la sua personalità e la Hernandez ha una voce straordinaria ed è una donna molto forte.
Come ha gestito l’emozione? Non dimentichiamo che ha anche avuto il coraggio di eseguire il Sib al termine della cabaletta.
Sono arrivato dopo ventidue anni di carriera; anche quando cantai Simon Boccanegra a Roma c’era molta responsabilità, per la scelta che aveva fatto il maestro, su un cantante poco conosciuto. Mi sentivo pronto, non avevo timore.
Alla prima prova Chailly mi ha domandato: “Lei ha il Sib? Me lo può far sentire?” e, dopo, mi ha chiesto lui di farlo anche in recita. Ci voleva coraggio, è vero, perché abbiamo eseguito due volte la cabaletta prima dell’acuto.
Secondo il punto di vista mutiano, sarebbe stato sbagliato farlo, ma, d’altra arte, anche il pubblico chiede alcuni suoni, come un gol in una partita di calcio.
L’acuto è stato eseguito con una grande espressività. Anche questo è stato preparato prima?
È venuto naturale: secondo me nella cabaletta quel “Piangerà” è un senso di disperazione, non è un canto da guerriero. È chiaro dall’inizio che non ci sarà speranza. Ezio aveva già sconfitto Attila ai campi Catalaunici e le vicende narrate nell’opera sono successive. Ezio non era di famiglia nobile e già si conosceva con Attila, anche questo è da pensare per il primo duetto. È un condottiero che conosce perfettamente la realtà del momento.
Passiamo ora Vienna: lei è appena stato Enrico in Lucia di Lammermoor.
Il ritorno a Enrico è avvenuto dopo tanti anni: non è un ruolo che offre molta soddisfazione, è un personaggio negativo, senza molti punti in cui si abbia a disposizione una bella linea. È una parte che non faccio più molto volentieri, ma se me lo chiedono teatri come Vienna non posso certamente dire di no.
In questi giorni, invece, sta cantando nel dittico Cavalleria rusticana e Pagliacci
Sono molto contento, adoro il Prologo, perché dice molto della vita degli artisti. È la prima cosa che ho cantato e che cantavo sempre quando avevo 16 anni. Mi prendevano per folle, quando ero ragazzo, e capivano subito che stavo arrivando, quando sentivano intonare il prologo dei Pagliacci. Cantarlo qui alla Staatsoper con i Wiener Philharmoniker è stato un sogno. Il personaggio di Tonio è molto interessante: assomiglia molto a Rigoletto, anche fisicamente. Tonio fa un lavoro, è un artista, non disprezza il suo mestiere, a differenza di Rigoletto, ma entrambi sanno che cosa sia l’amore, perché Rigoletto l’aveva provato per la defunta moglie. Il problema è che Tonio si innamora di Nedda, un amore vero secondo me. Ogni persona nella vita reale che ha un difetto, se la prende personalmente se viene giudicato per questo, si sente umiliato. Tutti lo vedono come un carattere negativo, ma secondo me il suo cattivo carattere è figlio del destino che l’ha reso deforme. Lui non ferma Canio, ma non pensava che avrebbe ucciso Nedda.
La regia di Ponnelle tornava alla Wiener Staatsoper dopo moltissimi anni.
È una regia splendida: ad Amburgo avevo fatto l’Elisir d’amore di Ponnelle, regista straordinario. La scenografia è bellissima e ogni cosa è pensata fino al più piccolo dettaglio. Anche nel duetto con Nedda si vede il contrasto della personalità di Tonio, elegiaco nel dichiarare il suo amore e brutale subito dopo, quando lei lo rifiuta con tanto sdegno.
I suoi prossimi impegni?
Per ora si possono dire Otello a Montecarlo, Macbeth a Vienna, La forza del destino a Zurigo, Carmen in Oman, La traviata a Zurigo, Il pirata a Madrid, Nabucco a Amsterdam, Otello a Berlino ea Firenze, Il trovatore e Lucia di Lammermoor a Vienna, Un ballo in maschera a Madrid e Monaco di Baviera e Simon Boccanegra a Berlino.