L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

I frutti della Rivoluzione

di Alberto Ponti

In un’intensa serata, il celebre Concerto n. 3 di Prokof’ev è affiancato alla prima Sinfonia di Šostakovič, specchio di contrastanti stati d’animo

TORINO, 23 maggio 2025 - Impaginato con grande sapienza, il ventesimo appuntamento della stagione 2024/25 dell’Orchestra Sinfonica Nazionale consente di avere un punto di vista d’eccezione sui fermenti in atto nella musica russa del periodo a cavallo della prima guerra mondiale, accostando pagine molto differenti di Prokof’ev e Šostakovič. Sopite da tempo le reazioni contrastanti, di esaltazione enfatica come di rifiuto sdegnato, di fronte a un’arte che all’epoca parve rivoluzionaria, possiamo oggi volgerci ad essa con lo sguardo sereno riservato ai classici, riconoscendone sia il debito nei confronti della tradizione sia le straordinarie anticipazioni di un linguaggio destinato a divenire corrente nel seguito del Novecento.

A rendere particolarmente accattivante la serata ha contribuito la presenza di due interpreti che, per origine e formazione, hanno confidenza innata con tale repertorio: il direttore Stanislav Kochanovsky e il pianista di fama internazionale Nikolai Lugansky, protagonisti di una brillantissima esecuzione del Concerto n. 3 in do maggiore per pianoforte e orchestra op. 26 (1913-21) di Sergej Prokof’ev. All’interno del corpus dei cinque lavori solistici dell’autore, il terzo, dalla gestazione a dir poco laboriosa durata quasi dieci anni dai primi schizzi al ‘prodotto finito’, è di gran lunga il più eseguito ed occupa da sempre un posto privilegiato nel favore del pubblico, finendo per essere un cavallo di battaglia di moltissimi concertisti che aspirino a scalare i vertici dello star system degli ultimi decenni, da Vladimir Ashkenazy a Martha Argerich, da Evgeny Kissin a Yuja Wang.

Nonostante la scrittura di estremo virtuosismo un pianista del calibro di Lugansky non ha certo bisogno di dimostrare la sua bravura in pagine come questa, e la sua interpretazione, raffinata e sensibile alle molteplici sfumature dell’articolato discorso musicale messo in campo da Prokof’ev, si distingue per profondità e leggerezza allo stesso tempo. Il solista, in ognuno dei tre movimenti, è chiamato a intervenire dopo che le idee principali sono state esposte da altri strumenti e lo fa con lo spirito di chi intenda continuare una conversazione piuttosto che dell’antagonista desideroso di gettare il guanto di sfida all’orchestra. Ne deriva, anche nei passaggi sfavillanti e più scopertamente tecnici, un’attenzione al fatto espressivo che predomina rispetto alla nonchalance con cui le continue difficoltà vengono superate. Ecco allora il primo Allegro assumere i contorni di un articolato caleidoscopio di colori con il pianoforte che conduce le danze lasciandosi a sua volta condurre, ora delicato carillon ora impetuoso motore al massimo dei giri. Se il variegato pianismo di Lugansky appare in grado di illuminare alcuni passaggi al modo di una rivelazione infondendovi una linfa personale senza rinnegare il tratto stilistico del compositore, la bacchetta di Kochanovsky è più ancorata a una visione improntata al contrasto tra solo e tutti, finendo talvolta per prevaricare in termini di volume di suono gli accordi del protagonista. Maggiore varietà da parte del direttore, con l’orchestra sovente impiegata in arabeschi di singoli suoi componenti, si ha nel successivo Tema con variazioni, costruito a partire da una memorabile idea melodica che si snoda lungo una scala discendente irta di cromatismi, e nel finale Allegro ma non troppo dove lo stile sarcastico e grottesco, marchio di fabbrica del giovane Prokof’ev, si stempera in una secondo tema di sapore tardoromantico. Lugansky attraversa i paesaggi mutevoli della partitura con un’articolazione di suono esemplare, un fraseggiare vigoroso e robusto ma non immemore di squisitezze apollinee, un timbro di morbida pienezza, un respiro tra le idee ben dosato che non fa mai percepire lo stacco tra materiale così eterogeneo e disparato. Molte di queste caratteristiche, coniugate a una grazia quasi chopiniana con seducenti accenni di rubato, si ritrovano nel Rachmaninov del preludio in do minore op. 23 n. 7, proposto come bis tra le ovazioni del pubblico dell’auditorium ‘Toscanini’.

Lo Scherzo n. 1 in fa diesis minore op.1, secondo Dmitrij Šostakovič stesso, fu concepito a 13 anni nel 1919, anche se la versione definitiva risale quasi certamente al 1921. È in ogni caso sorprendente la maturità formale di un lavoro che, se da un lato si muove nel solco della tradizione di compositori quali Glazunov e il Gruppo dei Cinque, dall’altro dimostra nei suoi scarsi cinque minuti di durata un’asciuttezza e un’esattezza timbrica che prefigurano il genio a venire. La prima Sinfonia in fa minore op. 10, saggio finale presentato nel 1925 al termine degli studi al Conservatorio di San Pietroburgo, reca già invece al cento per cento l’impronta inconfondibile dell’autore. Si può affermare senza timore di essere smentiti che, al pari di Prokof’ev nei suoi primi lavori pianistici, lo Šostakovi

adolescente dimostra un talento e un’originalità straordinarie che erano del tutto sconosciute allo Stravinskij degli esordi, la cui Sinfonia in mi bemolle, scritta nel 1907 a venticinque anni, non lascia per nulla intravedere il futuro creatore di Petruška.

La concertazione di Kochanovksy ben si addice ai tratti distintivi della prima delle quindici opere destinate a diventare il corpus di sinfonie più importante e celebrato del Novecento. Non è un compito facile, dal momento che il direttore deve far quadrare il cerchio di fronte a una composizione dove, come in un dipinto ‘tubista’ di Fernand Léger, la materia pare animata da un’energia centrifuga che dà l’idea dello scoppio di un motore: passi solistici di intensità estrema affiancati ad episodi fragorosi della grande orchestra, ghigni beffardi degli strumenti, andamenti meccanici da marionetta, improvvise reminiscenze mahleriane con melodie di ampio respiro che tuttavia subito si smorzano in un incedere misterioso e inquieto. Se proprio si deve trovare un difetto nella partitura, la carne al fuoco è fin troppa per mezz’ora di musica, e Šostakovi

saprà in seguito distillare l’ispirazione in architetture di maggior equilibrio. Kochanovsky ci restituisce la sostanza sonora nel suo aspetto originario, non nasconde l’ansia dell’autore nemmeno ventenne di dimostrare cosa si riteneva capace di fare, rinuncia a una ‘coincidentia oppositorum’ privilegiando l’anima all’eleganza. Scorrono allora davanti a noi l’irriverente Allegro non troppo iniziale che esplode nello sviluppo e si chiude alle soglie del silenzio, il frenetico Scherzo con il pianoforte concertante (suonato per l’occasione da Andrea Rebaudengo), il Lento con la dimensione verticale a prevalere su quella orizzontale, il frastagliato Finale con la confluenza di umori inconciliabili e inconciliati, esaltazione e disperazione fianco a fianco senza alcuna barriera, eco forse dei coevi tempi rivoluzionari, coacervo inestricabile di slancio ideale e azione brutale.

Applausi roboanti da parte di un pubblico, almeno nella serata di venerdì, non sparuto ma nemmeno numeroso, considerata la presenza di Lugansky. Un peccato, per un repertorio che si hanno poche occasioni di sentire eseguito in questo modo.

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