L’Ape musicale

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Le opere in scena

Prosegue il progetto #Donizetti200 con Le nozze in villa, «dramma buffo» non poco problematico. Lo conosciamo grazie ad un’unica partitura superstite, non autografa e purtroppo incompleta (manca un Quintetto nell’Atto II); non ci è giunto nessun libretto stampato in occasione del suo debutto; mancano testimonianze dirette della sua prima esecuzione. Indirettamente è possibile però indicare luogo e anno del debutto (Mantova, carnevale 1819), conoscerne l’esito (deludente: il primo fiasco del giovane compositore), ipotizzarne un rifacimento e una ripresentazione (Treviso, primavera 1820). Come per le precedenti Enrico di Borgogna e Una follia, anche per questa sua terza opera teatrale Donizetti ebbe come librettista il bergamasco Bartolomeo Merelli, che trasformò in opera buffa una commedia del 1803 di August von Kotzebue a suo tempo tradotta in italiano col titolo I provinciali. Ecco così la coppia di giovani innamorati alle prese con un padre caricaturalmente tronfio, e un promesso sposo non meno esageratamente ridicolo, nei modi di una comicità smaccata e intenzionalmente sopra le righe. Secondo la testimonianza di un suo vecchio compagno di scuola, fu all’epoca delle Nozze in villa che Donizetti si persuase della «necessità di attaccarsi al genio Rossiniano per secondare il gusto della giornata» e affermarsi come operista: solo a quel punto avrebbe pensato a «slanciarsi a modo suo».

Risalenti invece alla piena maturità compositiva di Donizetti, Marino Faliero e La fille du régiment si potrebbero considerare per certi versi sorelle. Entrambe scritte per Parigi, Marino Faliero fu composta espressamente per la capitale francese (1835) quando Donizetti vi mise piede per la prima volta. La fille du régiment, invece, fu la prima opera nuova di Donizetti in lingua francese ad essere rappresentata a Parigi (1840) quando il compositore decise di trasferirsi in Francia. Tra l’una e l’altra ci sono però evidenti differenze. Alla sua prima esperienza all’estero, e addirittura nella maggior capitale teatrale europea, Donizetti fu chiamato a rappresentare ‒ insieme con Bellini ‒ la generazione dei giovani compositori italiani di successo. Al Théâtre Italien, di cui Rossini era di fatto il consulente musicale, essi presentarono rispettivamente Marino Faliero e I Puritani, due opere nelle quali le componenti politiche sono fortemente presenti. A Parigi avevano trovato ospitalità parecchi profughi italiani, di fede mazziniana, e i cartelloni del Théâtre Italien rispecchiavano anche questa immagine d’Italianità: nel 1834 vi avevano debuttato il libertario Ernani di Gabussie Il bravo del carbonaro milanese Marliani; l’anno dopo, due esuli mazziniani come Agostino Ruffini e Carlo Pepoli furono coinvolti nella stesura dei libretti l’uno di Marino Faliero, l’altro di I Puritani. Partitura ricca ed elaborata, ribelli che affrontano eroicamente il martirio, grandi pagine collettive e corali (il Popolo): non stupisce che Marino Faliero sia stata opera prediletta da Giuseppe Mazzini, che vi vide il primo passo verso un teatro musicale impegnato, in grado di proporsi come grande palestra educativa per il riscatto degli Italiani.

Tutta diversa La fille du régiment, «opéra-comique» cantata e parlata, in lingua francese, commedia brillante d’ambientazione militare non priva di fiammate patriottiche, sempre però nei modi di uno stile leggero e frizzante. Non solo Donizetti si cimentava col repertorio francese, ma si dimostrava perfettamente a suo agio in quei panni, naturalizzato parigino in un batter d’occhio, disinvoltamente boulevardier quasi fosse cresciuto a baguettes e calvados. Di lì a poco erano previste due sue opere al Théâtre de la Renaissance (L’ange de Nisida, Elisabeth: progetti abortiti causa fallimento dell’impresa), e un’altra all’Opéra (Lesmartyrs). Insomma, c’era di che fare infuriare i colleghi francesi, che vedevano un italiano andare ben al di là dei recinti tradizionali degli spettacoli in lingua italiana che si tenevano sul palcoscenico del Théâtre Italien. Pur in un contesto di forme e modi tipicamente parigini, La fille du régiment racchiude anche pagine ispirate a una vena patetica propria della miglior tradizione semiseria italiana, e che non possono non ricordare i languori di Nemorino.

Tra l’uno e l’altro soggiorno parigino, Belisario (1836) segnò il ritorno di Donizetti a Venezia, dandogli occasione «di rivedere la città, dove o bene, o male incominciai la musicale carriera», come osservò lui stesso. Un amico che non lo vedeva dai tempi di Pietro il Grande (da 16 anni, quindi) lo trovò «bello e robusto forse più di allora». Non era diventato tale solo di corporatura. Dall’epoca di quelle sue prime esperienze, compiute nel genere comico e sotto l’influsso rossiniano, aveva acquisito un suo stile, al passo coi tempi nuovi e dunque specie in ambito serio: anzi, in drammi a forti tinte, romantica o classica che fosse la materia sceneggiata. E «tragedia lirica» è Belisario, su un libretto molto apprezzato di Salvadore Cammarano, denso di passioni e situazioni che hanno radici nel grande patrimonio classico, riecheggiando le traversie di Edipo e le cupe vicende famigliari degli Atridi. A colpire fu, in modo particolare, proprio la parte del protagonista, come scrisse un recensore: «interessantissima per il pubblico, commovente e di tutta espressione e sentimento», parabola di un eroe che precipita dal trionfo alla rovina senza smarrire quella grandezza d’animo che lo porterà al finale, tragico riscatto.

Una moglie che, per salvare il marito ingiustamente carcerato e ridotto in fin di vita, riesce a penetrare nella prigione spacciandosi per uomo e affrontando eroicamente il suo aguzzino. È questo il cuore palpitante della pièce di Jean-Nicolas Bouilly Léonore ou L’amourconjugal che, coi siparietti musicali di Pierre Gaveaux, aveva debuttato a Parigi l’anno VI della neonata Repubblica Francese. Era un soggetto affascinante, subito assimilato dal teatro musicale italiano (Leonora, ossia L’amor coniugale di Ferdinando Paër, Dresda 1804) e tedesco (Leonore di Beethoven, Vienna 1805 e 1806, e infine 1814 ma re intitolato Fidelio). Nel frattempo anche Simone Mayr, nel pieno della sua carriera teatrale, ne aveva posto in musica una versione, preparatagli dal librettista Gaetano Rossi: L’amor coniugale (Padova, estate 1805), «dramma di sentimento in un atto». Ambientata in una Spagna feudale, la vicenda sceneggiata da Bouillye fatta propria da Paër e Beethoven portava in scena una persecuzione politica locale cui pone fine l’intervento del buon sovrano, ignaro della malvagità di quel suo vassallo. Nell’opera di Rossi e Mayr, trasportata in una Polonia non meno ‘barbara’, il prigioniero è più semplicemente soltanto un rivale in amore dello spietato signorotto del luogo. Per quanto depoliticizzato, il soggetto presenta le medesime dinamiche e le stesse situazioni del suo modello letterario, compresa la drammatica scena della prigione in cui Leonora, rivelata la sua vera identità, punta una pistola contro lo scellerato. Anche se non a temperature così incandescenti, era un filone di patetismo che Rossi e Mayr avevano saggiato anche l’anno prima nel «dramma sentimentale in un atto» Elisa (Venezia, 1804), il cui successo doveva averli convinti che il pubblico si appassionava sempre più a storie di quel tipo, di gran moda nel teatro francese.

Paolo Fabbri

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