Il lusso non basta
di Roberta Pedrotti
G. Verdi
Requiem
Harteros, Garanča, Kaufmann, Pape
orchestra e coro del Teatro alla Scala di Milano maestro del coro Bruno Casoni
direttore Daniel Barenboim
Milano, Teatro alla Scala, 27 agosto 2012
DVD Decca 0743807, 2013
Non sempre le locandine lussuose sono sinonimo di sicura riuscita e ciò che, magari, può funzionare in un titolo o con un autore, non è detto possa ottenere i medesimi risultati in tutto il repertorio. Temperamenti, sensibilità, musicalità, tecnica, doti naturali, carisma sono fattori che possono combinarsi nell'artista in proporzioni e qualità diverse, e calzare più o meno bene ad ogni singola partitura. Eseguire un capolavoro assoluto con un cast e un podio di star internazionali, in uno dei più grandi teatri del mondo, con i suoi complessi stabili, non è detto sia garanzia di un'esecuzione eccellente. Anzi, nel caso di questo Requiem verdiano, si aprono una serie di interrogativi e riflessioni sul rapporto fra tecnica e interpretazione, sull'intima corrispondenza fra l'artista e la musica. Da entrambi i punti di vista chi s'impone come l'elemento migliore in campo è Elīna Garanča, elegantissima, concentrata in un'intima severità del fraseggio, che rifugge magniloquenza e sentimentalismo pur senza apparire grave o freddo, anzi, profondamente sentito. La voce è morbida e rotonda, ha perso l'ombra di vibrato di qualche tempo fa e le permette di esprimere con gusto e naturalezza, senza camuffarsi da mezzosoprano drammatico, una musicalità nobile e raffinata, una vocalità sana e ben gestita. Ascoltando Jonas Kaufmann si ha invece la sensazione di trovarsi di fronte a un Giano bifronte, a dottor Jekyll e mister Hyde: il musicista da una parte, il cantante dall'altra. È evidente, per esempio, nell'Ingemisco l'idea di una lettura cesellata nel legato fra pianissimi, mezzevoci, accenti virilmente calibrati con grande intelligenza. Questa l'idea, cui risponde però una voce non sufficientemente duttile e tecnicamente adeguata. Il metodo di canto di Kaufmann è sicuramente eterodosso, funzionale, in certi casi, per permettergli di affrontare un certo repertorio e di esprimere una vocalità lontana da quella originaria di lirico puro. Tuttavia nel Requiem le più belle intenzioni musicali soccombono, con questo metodo, per un passaggio (così spesso sollecitato nella scrittura) che s'ingolfa regolarmente, emissione morchiosa, perfino goffa rispetto all'intenzione, l'effetto generale decisamente sgradevole. Non è un caso se etimologicamente la tecnica (τέχνη) in musica è sinonimo anche di arte: altrove il metodo di Kaufmann potrà riuscire a essere tutt'uno con la sua arte (ricordiamo il fraseggio notevolissimo del suo Lohengrin scaligero, pur alieno da paradisiache mezzevoci), ma in casi come questo arte e tecnica non corrispondono, l'intenzione poetica rimane intuibile ma irrisolta, l'esito finale deludente. Fra questi estremi esemplari si collocano Anja Harteros e René Pape. Quest'ultimo pare sostanzialmente estraneo alla pregnanza fonetica della lingua latina e non sembra motivato a trovare una sua via interpretativa, una ragione e una chiave di lettura della partitura, come appare evidentemente in Mors stupebit, dove non sfrutta le allitterazioni, non coglie nessuna angolazione – solenne, angosciosa, esterrefatta – del momento terribile che atterrisce e sospende la Natura e la Morte stessa. Più della relativa chiarezza della voce spiace la tendenza a mandare indietro gli acuti. Il soprano lascia trasparire una certa timidezza, che può ben interpretare l'umana fragilità di fronte all'incombenza del destino, dell'inevitabile, del sovrumano. Purtroppo la fragilità è anche nella voce e i pianissimi, i filati suonano troppo spesso esili e vetrosi, il canto evanescente e timoroso anche quando il gioco di contrasti vorrebbe una maggior espansione, una cavata più avvolgente per esprimere un dramma universale. Certo è che il quartetto dei solisti, al di là delle singole caratteristiche, di pregi e difetti individuali, non esprime una lettura unitaria, non costruisce il dramma del Requiem delineandone una possibile, coerente lettura. Daniel Barenboim conferma che Verdi non è l'autore a lui più congeniale. Non scatta l'affinità elettiva, né un contrasto in qualche modo dialettico e costruttivo, nemmeno in questo caso, dove tutto procede senza che vi sia, a livello timbrico, agogico, dinamico, coloristico, di fraseggio, un quid che motivi la ragion d'essere di questo Requiem. Lussuoso e anonimo, con solo qualche occasionale zampata, come nelle ultime battute della prima esposizione del Dies Irae, in cui Barenboim lascia trasparire raffinati controcanti. Ma è un istante, un guizzo occasionale in un contesto privo di personalità, corretto ma generico, in cui anche i complessi della Scala fanno il loro dovere ma non brillano come ci si aspetterebbe. Oltre alla conferma della felice evoluzione artistica della Garanča, ci resta dunque ben poco da segnalare in questo elegantissimo cofanetto dall'ottima ripresa audio, ma che ignora, nei sottotitoli, non solo la lingua di Verdi, ma anche quella degli stessi testi liturgici intonati.