L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

La rivincita di Tito

di Antonio G. Ruggeri

A lungo bistrattata dopo l'infelice debutto nel 1791, oggetto di giudizi critici contrastanti, La clemenza di Tito rappresenta un fiore all'occhiello nella programmazione del Teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena. Una proposta intelligente, che rappresenta di per sé un valore aggiunto nell'attività di un teatro della cosiddetta provincia, e che viene ben realizzata da una compagnia di valore eterogeneo, ma ben amalgamata grazie alla concertazione di Eric Hull e alla regia di Walter Pagliaro.

MODENA, 9 febbraio 2014 - La prima rappresentazione della Clemenza di Tito, ultimo lavoro teatrale di W. A. Mozart, avvenne il 6 Settembre 1791 al Teatro “degli Stati” di Praga in occasione dei festeggiamenti organizzati per la cerimonia d’incoronazione di Leopoldo II d’Asburgo a re di Boemia che dal comando del Gran Ducato di Toscana venne richiamato a Vienna nel 1790 alla guida dell’impero dopo la morte di suo fratello Giuseppe II. L’avvicendamento al trono portò inevitabilmente dei cambiamenti anche nel mondo musicale della corte viennese e se Lorenzo da Ponte venne sostituito dal poeta Giovanni Bertati, Mozart si vide ancora negata la nomina di compositore del teatro. Ormai rassegnatosi, di salute compromessa (la morte sopraggiunse solo tre mesi più tardi) e costretto a scrivere controvoglia per considerevoli problemi economici, accettò subito la commissione dall’impresario del teatro, Domenico Guardasoni, nonostante questo gli imponesse il vecchio libretto di Pietro Metastasio, scritto nel 1734 per celebrare l’imperatore Carlo VI e incentrato sulla figura di Tito, imperatore di Roma miracolosamente scampato a una congiura che perdona poi i traditori con un atto di clemenza inaspettato. Dramma solenne quindi, di stile classico, scelto per rappresentare l'ideale della monarchia illuminata, in contrapposizione con gli ideali della Rivoluzione francese. Mozart fu subito cosciente che il libretto metastasiano non poteva essere portato sulla scena cosi com’era e che necessitava di una sostanzialmente revisione, affidata al vecchio amico Caterino Mazzolà. Recatosi a Praga con la moglie e l’allievo Sussmayr (che scrisse quasi tutti i recitativi) compose l’opera, secondo la leggenda, in soli diciotto giorni. Dopo la fredda risposta del pubblico alla prima, sintetizzata nel famoso commento tranchant della regina Maria Luisa (“una porcheria tedesca in lingua italiana“), l'opera ha sempre ispirato giudizi contraddittori, che definivano la Clemenza ora come geniale capolavoro e modello per molti compositori neoclassici (Spontini e Meyerbeer ne colsero il reale valore), ora come opera drammaturgicamente incompleta e frettolosa (lo stesso Wagner la definì composizione infelice) con arie di ottima fattura, spunti melodici splendidi, ma con una scrittura svogliata e scontata, una sorta di déjà-vu musicale francamente inaspettato da un talento come quello mozartiano.

In realtà, nonostante l’effettiva forma di opera “simbolica”, per il fine celebrativo, e di “serenata teatrale”, per la successione di strepitose arie virtuosistiche”, Mozart colse l'occasione per rinnovare dal profondo il cliché ormai sempre più obsoleto dell’opera seria (il libretto metastasiano stereotipato nella definizione dei personaggi e rigido nelle sue forme) e per perfezionare un lavoro di introspezione psicologica sui tre protagonisti, descritti con tutte le loro contraddizioni e debolezze. Così, sotto l'accademica perfezione delle forme, l’opera cela sentimenti palpitanti (l’affetto tradito, il dolore, il pentimento, la gelosia, la compassione) di personaggi che hanno un rilievo drammatico espresso con un’immediatezza già maturata attraverso lo studio dell’animo umano nella trilogia Nozze di Figaro-Don Giovanni-Così fan tutte .

Musicalmente, poi, sono evidenti i rapporti con il Requiem e il Flauto magico e la modernità della partitura è avvertibile fin dalla prima scena, con l'incipit in medias res che rinunzia a un numero musicale introduttivo immergendoci subito nel vivo del dramma con il recitativo. Il finale primo è parimenti significativo, per l’impiego del coro a sottolineare lo smarrimento e la confusione che seguono all’attentato contro Tito. In epoca contemporanea si è recuperato pertanto e a ragione un certo interesse nei confronti di questa opera sempre più presente nei cartelloni teatrali, permettendo al pubblico di apprezzarla pienamente.

Per questo la proposta del Teatro Comunale di Modena, che mette in scena nel corso dell’attuale stagione La clemenza di Tito in collaborazione con il Valli di Reggio Emilia, costituisce di per sé un valore aggiunto per l'attività e l'identità dell'istituzione, che cerca di sfruttare al meglio i mezzi a sua disposizione.

Quella vista al Comunale “Luciano Pavarotti” è la ripresa dell’allestimento realizzato a Bari qualche anno fa a firma dal regista Walter Pagliaro, già particolarmente legato a quest’opera per averne curato nel 1991 l’edizione del bicentenario proprio nello stesso teatro di Praga che ne vide la prima rappresentazione. In questo caso il regista ha ideato un’imponente impianto architettonico ligneo atemporale, a forma di mausoleo rovesciato al cui interno si discendeva tramite una scala centrale e le cui pareti si aprivano e chiudevano per creare la giusta ambientazione al procedere degli eventi. Al centro si svolgeva l’azione con tutti i turbamenti interiori dei sei personaggi che rendevano con immediatezza le varie situazioni. Il regista infatti ha fatto esprimere i protagonisti con una recitazione svelta, molto moderna, diretta e curata nei dettagli. Di pari passo con l’impostazione scenica erano i costumi tardo settecenteschi di Luigi Perego, contemporanei quindi a Mozart, in cui la romanità era semplicemente “di riporto” al fine di rendere l’impatto visivo più assimilabile al pubblico odierno. Certo non tutto ha funzionato: l’idea di accendere le luci in sala mentre Tito canta la sua aria “istituzionale” non è parsa molto indovinata; così come quando lo stesso imperatore dirige con una bacchetta il coro conclusivo del II atto, quasi a rappresentare simbolicamente la gestione illuminata del potere imperiale. Spettacolo comunque in fondo senza tempo e adatto a numerose ulteriori riproposizioni in futuro.

Se si eccettua qualche imperfezione nella fase iniziale, l’esecuzione musicale da parte dell’orchestra Regionale dell’Emilia Romagna guidata da Eric Hull, è parsa di tutto rispetto grazie ad un suono costantemente limpido e piacevole, una scelta dei tempi equilibrata, mai prevaricante, ma sempre espressiva. I colori orchestrali ricchi di contrasti si sono così realizzati in perfetto accordo con le esigenze del palcoscenico, garantendo una lettura senza inciampi della non facile partitura e riuscendo a portare alla luce tutti i fremiti nascosti (ma non troppo) nelle pieghe della scrittura strumentale.

Momento magico della rappresentazione è stato il quintetto finale dell’atto primo atto, con il prezioso contributo del coro Lirico Amedeus diretto da Stefano Colò, concitato e carico “di fuoco”! Difficilissima la scrittura vocale per i solisti: è estremamente complicato trovarne cantanti all’altezza e nel complesso quelli scelti per questa edizione hanno offerto una prova tutto sommato eterogenea per formazione e resa.

Entusiasma il pubblico Paolo Fanale che debuttava in Italia dopo averlo già cantato a Marsiglia il ruolo protagonistico dell’algido imperatore Tito. Giovane tenore sulla cresta dell’onda, se non altro per la curiosità sempre maggiore che circonda la sua carriera internazionale, vanta già una consumata esperienza nel repertorio mozartiano e romantico. Voce morbida e delicata da lirico puro, dopo recenti successi come Don Ottavio, Belmonte, Tamino e Ferrando, era inevitabile per lui orientarsi verso un ruolo come quello di Tito che conferma la sua affinità col compositore salisburghese. L’impeccabile e oculata gestione del mezzo vocale, in una parte tra l’altro che insiste nella tessitura centrale, gli garantisce un’emissione fluida e omogenea in tutti i registri; la linea di canto perfetta mette in evidenza una costante ricerca di colori e smorzature, tratteggiando così con garbo un Tito molto interessante, ponderato ed impulsivo nello stesso tempo,in preda a mille diverse emozioni, pur se ancora manchevole di carisma e autorevolezza regale. A suo agio soprattutto nei passi più riflessivi, ha cantato con malinconia l’aria d’esordio “Del più sublime soglio", passando ad accentare con puntualità" Ah, se fosse intorno al trono" e risolvendo con precisione le complicate agilità di quartine di sedicesimi della terza aria "Se all’impero, amici Dei". La dizione eccellente gli ha permesso una scansione tornita e aulica dei recitativi dando il giusto nerbo e accento al lungo recitativo accompagnato del secondo atto. La gestualità elegante , in linea con l’idea registica voluta da Pagliaro, sigla quindi una prova impegnata e interessante da parte di un tenore che conferma di dare il meglio in questo autore.

Se il clemente Tito deve esprimere razionalità e riflessione, la patrizia Vitellia che domina la complessa trama degli avvenimenti è l'archetipo dell'eroina antica, dal carattere impetuoso e cinico. Mozart chiede all’interprete significative doti drammatiche che, pur nel rispetto dei rigorosi canoni neoclassicisti, guardano già oltre la data di composizione dell’opera: la scrittura vocale così piena di balzi in acuto, di improvvise discese nel registro grave e irta di difficoltà tecniche mette duramente alla prova molte interpreti. Teresa Romano già applaudita Vitellia in molti teatri si trova a suo agio in questo ruolo che ripropone con personalità e interpretazione vigorosa anche a Modena. La singolare bellezza del timbro nel registro centrale, accompagnata da perfetta dizione ed eleganza scenica, caratteristiche che non si discutono,devono però costituire un punto di partenza e non di arrivo: l’impressione infatti che resta al termine della recita è di una certa qual incompletezza, in quanto gli acuti risolti con slancio tendono sempre allo stridulo, latita un autentico lavoro di cesello nello scolpire le frasi e lo “stile” nel senso più ampio del termine risponde più a un pathos e calore istintivo “ottocentesco”. Esce comunque vincitrice dal lungo recitativo accompagnato ”Ecco il punto, o Vitellia, d'esaminar la tua costanza” e cresce di intensità fino alla grande aria-rondò “Non più di fiori”, il momento più drammatico dell'opera, dove la voce dal bel colore scuro accesa espressivamente e inseguita dal tormentoso mormorio del corno di bassetto che le ruba i temi, ha creato un'atmosfera tesa e livida di grande presa emotiva sul pubblico, che l’applaude calorosamente.

Protagonista musicale della recita è invece Gabriela Sborgi, che interpreta qui come già a Bari il ruolo di Sesto. Privando il personaggio di quella solennità caratteristica degli eroi en travesti, caratterizza un personaggio risoluto e volitivo, più sospiroso che tragico nei suoi tormenti, con gesti drammatici carichi di impeto e slancio che rendono appieno la psicologia complessa del personaggio: amante, amico fraterno e possibile assassino. Nonostante un timbro di non particolare seduzione, dal colore opaco e asciutto, la musica superba che Mozart ha scritto per il suo personaggio ha trovato in lei un’esecutrice ideale, imponendosi negli appuntamenti solistici più noti. L’aria con clarinetto obbligato «Parto, parto, ma tu ben mio», nonostante delle agilità non perfett,e l’ha vista in gara di splendida musicalità con un eccellente solista in orchestra; efficace nel lungo recitativo accompagnato “Oh Dei, che smania è questa”, dà una buona prova interpretativa, nonostante qualche attacco non pulitissimo, nel rondò del secondo atto "Deh per questo istante solo“, conseguendo un bel successo personale.

Aurora Faggioli, come Annio dall’impostazione vocale barocca, ha dato al suo personaggio una cifra androgina dolce ed incantevole: raffinata nella celebre "Torna di Tito a lato", è sembrata più in difficoltà nell’impervia “Tu fosti tradito”, con una linea di canto non sempre levigata e qualche acuto un po’ incerto. Ruzan Mantashyan e Valeriu Caradja, rispettivamente Servilia e Publio, stanno muovendo i primi passi nei teatri e proprio a Modena si sono sentiti nella scorsa stagione come Susanna e Figaro nelle Nozze mozartiane. A loro il merito di essersi ben calati nello spettacolo, riuscendo ad emergere in questi ruoli marginali grazie all'impegno, ben ripagato, nel ricercare la giusta e incisiva espressione in ogni frase. Il soprano delinea così con candore, freschezza e ingenua fierezza un’accorata Servilia; il baritono con voce rotonda e dizione nitida valorizza la piccola aria del secondo atto. Teatro felicemente pieno e acceso successo indirizzato a tutto il cast per uno spettcolo che aveva più di una freccia al proprio arco.

 


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