L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Ritorno alle origini

 di Francesco Bertini

 

Mancava da ben settantasette anni dalle scene veneziane Il signor Bruschino, che pure al lagunare San Moisé ebbe il suo - tormentato - debutto esattamente duecentodue anni or sono, quando Rossini si apprestava a imporsi, nel giro di pochi mesi, con Tancredi, L'italiana in Algeri e La pietra del paragone.

VENEZIA, 29 gennaio 2015 - Tra il 1810 e il 1813 Gioachino Rossini ebbe rapporti costanti con Venezia, in particolare con il Teatro Giustiniani San Moisè per il quale scrisse ben cinque farse. La Fondazione Teatro la Fenice ha deciso di rappresentare questi lavori avvalendosi della preziosa collaborazione degli allievi più valenti degli istituti artistici cittadini, nell’ambito del progetto “Atelier della Fenice al Teatro Malibran”. Le cinque recite di Il signor Bruschino ossia Il figlio per azzardo riportano a Venezia la simpatica e condensatissima farsa giocosa, assente in laguna dal lontano 1938 quando venne rappresentata in coda all’Elektra di Richard Strauss.

Il libretto è opera dell’abile Giuseppe Maria Foppa, già autore di numerosi lavori teatrali, che trasse ispirazione da Le fils par hasard, ou Ruse et folie, commedia di René de Chazet e Maurice Ourry datata 1809. La prima rappresentazione, risalente al 27 gennaio 1813, avvenne al Teatro San Moisè dove, similmente al San Luca e al San Benedetto, si coltivò questo genere breve. Il fiasco fu però totale: il pubblico non prese bene la vicenda, interamente basata sull’agnizione, e mal accettò certe trovate rossiniane, brillanti ma ancora troppo audaci (vedi la prescrizione per i violini secondi, durante la celebre sinfonia, di battere l’archetto “sui piatti sottoposti al lampadino”).

La nuova produzione vanta un cast vocale omogeneo, con il buon apporto della concertazione brillante di Francesco Ommassini il quale, rispetto alla recente Sonnambula trevigiana, si muove con agio lungo la partitura rossiniana. La sua lettura è spigliata, intelligente e capace di imprimere un ritmo vorticoso alla narrazione che mai perde d’intensità. L’Orchestra del Teatro La Fenice risponde con zelo e grazia alle indicazioni del direttore il quale, nei recitativi, lascia spazio alle intuizioni lodevoli di Roberta Ferrari al fortepiano.

La giovane Sofia, pupilla scaltra e maliziosa, è interpretata dalla brava Irina Dubrovskaya. Il soprano siberiano si impone per timbro limpido e facilità in zona acuta. L’affinità con questo repertorio, in particolare con la scrittura tardo settecentesca e primo ottocentesca, consente all’artista di risaltare la brillantezza scenica, sopperendo alle lievi imperfezioni nella dizione. L’apporto di Omar Montanari, impegnato nel ruolo del Gaudenzio, è encomiabile per abilità scenica e vocale. Montanari pone attenzione al fraseggio, sempre preciso, e alla cura della parola nei recitativi. Si difende anche Francisco Brito, perfettamente calato nei panni di Florville. Il tenore argentino beneficia di timbro solare e di emissione già sufficientemente padroneggiata per affrontare certo repertorio rossiniano. La prova, anche dal punto di vista scenico, è apprezzabile e certamente ancora migliorabile. Ai due baritoni Filippo Fontana e Claudio Levantino sono affidate le rispettive parti di Bruschino padre e Filiberto. Entrambi hanno doti attoriali da vendere, tanto il primo, abilmente invecchiato e sciancato per dare efficacia all’anziano genitore, quanto il secondo, astuto e veemente locandiere. Fontana possiede linea canora pulita, fatto salvo qualche disagio nell’ascesa all’acuto, com’anche Levantino che, pur palesando una similare difficoltà, padroneggia fraseggio e vis comica. Debole, anche in quest’occasione, il tenore David Ferri Durà, Bruschino figlio e Un delegato di polizia. Giovanna Donadini, Marianna, si conferma interprete ideale, temperamentosa e capace di mascherare alcuni limiti con innata disinvoltura.

Lo spettacolo si avvale delle idee dei giovani provenienti dalla Scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. Per la precisione Erika Muraro cura le scene, Nathan Marin i costumi e Marta Zen le costruzioni. Il loro lavoro è indirizzato da Paola Cortelazzo, direzione laboratorio progettazione costumi, Giovanna Fiorentini, direzione laboratorio costumi, e Giuseppe Ranchetti, direzione laboratorio scene. Ne sortisce uno spettacolo brillante che sostiene i toni farseschi, senza eccedere smisuratamente con artifizi retorici superati. Il sommario gioco del metateatro si avvale di un piccolo modellino, identico alla scenografia adottata, nel quale le sagome dei personaggi vengono mosse a seconda della piega presa dalla vicenda. La regia di Bepi Morassi coglie con ironia le caratteristiche salienti dell’opera e dei protagonisti. L’ampia tavolozza umana, offerta da Rossini, serve a riassumere con garbo e rimandi sottili, a titoli più o meno coevi del pesarese, i significati, anche moraleggianti, del libretto di Foppa.

A fronte dell’impegno mostrato nell’inscenare un lavoro di rara esecuzione, la risposta del pubblico è parsa davvero poco entusiastica, non per le reazioni ma per gli eloquenti vuoti in sala.  


 

 

 
 
 

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