L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Et in Arcadia ego

 di Roberta Pedrotti

Splendido e intelligente programma, fra la napoletana Messa di Gloria e due cantate giovanili d'argomento mitologico, per il concerto di Ferragosto del Rossini Opera Festival. Di lusso la locandina, anche se minata dalla defezione dell'infortunato Roberto Abbado e con due divi non al massimo della forma.

PESARO 15 agosto 2015 - Quando si parla di Rossini sacro il pensiero corre inevitabilmente allo Stabat Mater e alla Petite messe solennelle e lì tende a fermarsi, al più girovagando fra una manciata di altre pagine che nell'immaginario comune e nella programmazione dei teatri restano solo dei nomi dai confini sonori non troppo definiti. Un vero peccato, perché la Messa di Gloria (assente da Pesaro dal 1995) è una partitura di grande interesse proprio per la sua collocazione, a differenza delle più note creazioni sacre degli anni parigini o di altre giovanili meno frequentate, nel pieno dell'attività teatrale, nello stesso 1820 che vide il tormentato esordio di Maometto II, pochi mesi dopo l'affermazione di Mosé in Egitto e i debutti di Ermione e della Donna del lago. Nel fermento degli anni partenopei, la Messa (breve quanto a testo, limitato a Kyrie e Gloria, ma assai ampia in proporzione per durata, che raggiunge l'ora complessiva) è l'occasione per Rossini di sfoderare tutta la sua scienza compositiva, con una cura e un'ambizione che confermano la complessità di uno spirito sempre inquieto nel rapporto con la propria opera. Passi a cappella, distici scanditi all'antica, contrappunto, ma anche grandi spazi solistici che possono apparire melodrammatici, ma in realtà ricordano lo sfarzo di una smagliante tradizione di mottetti a voce sola che, con la sua formazione bolognese, il giovane Gioachino avrà facilmente inteso e conosciuto. Sempre secondo consolidate consuetudini sacre, il materiale tematico non è necessariamente originale, addirittura non sempre di mano rossiniana, talora, come nella marcia che poi confluirà nel Siège de Corinthe e che viene da Marcello tramite Mayr, inconfutabilmente, talatra, come nella collaborazione con il dottissimo collega Pietro Raimondi, per ipotesi. Quel che importa, però, non è chi abbia ideato una cellula melodica o una particolare soluzione armonica, ma come Rossini elabora il discorso, costruisce e plasma la frase, l'architettura complessiva del brano, l'articolazione della scrittura. È lì, nel trattamento della linea orizzontale in rapporto alla verticalità erudita esaltata dai contesti sacri, che troviamo il genio rossiniano, e con esso uno slancio quasi commuovente nell'ergersi a un'altezza ideale vagheggiata come “classica” fin dai primi studi.

E ai primi studi rimonta la seconda parte del concerto dopo la Messa napoletana. Torniamo fra Bologna e la Romagna: il quattordicenne pesarese viene accolto per acclamazione nell'eletto consesso della Regia Accademia Filarmonica della città petroniana, e diviene quindi a tutti gli effetti un riconosciuto compositore professionista; due anni dopo, nel 1808, padre Mattei, successore di padre Martini come docente di contrappunto nel conservatorio bolognese, affida all'allievo già accademico una cantata da eseguirsi come saggio di fine anno. I versi sono dell'abate Girolamo Ruggia, l'organico, per forza di cose, tutto al maschile nonostante i personaggi (Armonia e le Ninfe) siano tutti al femminile, il soggetto, la morte di Orfeo. Et in Arcadia ego, dunque: il dolore anche nell'incanto pastorale classico. In ambito teatrale e non accademico, l'adolescente di Rossini si incrocia con la famiglia Mombelli, tutti artisti (il padre, Domenico, tenore e già vedovo della prima Contessa della Nozze di Figaro, la madre Vincenzina, librettista danzatrice e sorella del grande coreografo Salvatore Viganò, le figlie Esther e Marianna, soprano e contralto) e committenti della prima opera, Demetrio e Polibio. Per Esther, bella e brava sì da approdare poi come prima Madama Cortese nello stellare cast del Viaggio a Reims, compone una Scena lirica con cori su versi tratti da Metastasio: La morte di Didone. Un capolavoro che nel catalogo stilato dal buon Giuseppe “Vivazza” Rossini è datato 1810 e indicato come seconda cantata dopo Il pianto di Armonia sulla morte di Orfeo (con cui condivide la sinfonia, rielaborata per esser meno preziosa e più drammatica), ma la maturità teatrale già dimostrata è disarmante, e fa oscillare la data di composizione effettiva fra diverse ipotesi.

In quest'esecuzione pesarese avremmo forse ritenuto più appropriato presentare, dopo la prima parte consacrata – è il caso di dirlo – alla Messa, i due quadri mitologici in ordine di composizione, cosa che avrebbe anche garantito il gesto galante della chiusa riservata alla primadonna, ma l'interesse di questo sofisticato programma rimane intatto e adamantino. Sulla carta, e nella dottrina, uno dei migliori concerti proposti dal Rof negli ultimi anni.

Purtroppo il cambio di bacchetta non ha giovato all'esito, con l'infortunato Roberto Abbado costretto a rinunciare e Donato Renzetti a raccoglierne il testimone studiando un programma non proprio di abituale repertorio nel giro di pochissimo tempo. Ingiusto più che mai, in casi come questi, alzare il gessetto di Beckmesser, ma di certo i difetti già riscontrati nella Gazza ladra inaugurale – poco mordente, imprecisioni, pesi orchestrali mal calibrati rispetto alle voci – si sono ritrovati, e aggravati da un'orchestra Filarmonica Rossini (la stessa del Viaggio a Reims, da non confondersi con la Sinfonica dell'Inganno felice) non proprio impeccabile, specie negli ottoni.

Dei solisti, tre erano impegnati solo nella Messa, e fra questi tre spiccava splendidamente Mirco Palazzi, sempre impeccabile per ispirazione, contegno, nobiltà timbrica in un Quoniam di notevolissima difficoltà e risolto con souplesse anche nei passi più scabrosi quanto a tessitura.

Il tenore Dempsey Rivera e il mezzosoprano Viktoria Yarovaya hanno poco più che pertichini per, rispettivamente, primo tenore e soprano, ma li risolvono con musicalità e professionalità. Allo stesso modo il coro del Comunale di Bologna offre, con impegno e concentrazione, una prova convincente.

E veniamo, quindi, ai due divi del cartellone, Juan Diego Florez (protagonista poi del Pianto d'Armonia) e Jessica Pratt (Didone nella seconda parte).

Che il tenore peruviano ami la Messa di Gloria non è una novità, e gli va reso senz'altro merito per la dedizione tributata alla partitura, non solo a Pesaro. L'impegno è evidente anche nella cantata, dal punto di vista retorico ed espressivo, benché l'esito rimanga un po' generico, un'elegia sentita ma non trascendentale, priva anche dell'esaltazione solenne che dovrebbe avere, dopo il lamento, la celebrazione celeste della costellazione della Lira. I versi, intendiamoci, son quel che sono, ma il soggetto tocca l'essenza stessa della musica, e la freschezza ispirata del giovane Rossini possono stimolare una resa più avvincente nel fraseggio e profonda nella poesia. Ma se le scelte d'interprete di Flòrez, propenso al riserbo e al dosaggio rigoroso delle mezzetinte, asciutto ed elegante più che fantasioso, in stile per sottrazione più che per elaborazione, sono note e coerenti, ha colpito, a fronte della cura musicale e di una volontà di legare l'ascesa ai vertici del pentagramma maggiore del solito (soprattutto nella Messa) un leggero affaticamento già nei primi acuti, una certa tensione nella puntatura finale. Inalterato il registro centrale, come quello grave, mai stato troppo sonoro. E se qualche stanchezza qua e là si avverte, speriamo sia la lieve nube di un momento e non il conto presentato dai ruoli più lirici cui il tenore peruviano si sta sempre più avvicinando.

Non al meglio della forma è parsa, peraltro, anche Jessica Pratt, che ha saputo sempre dipanare alcuni momenti magici, come una messa di voce nell'Agnus Dei, ma nel complesso ha offerto una prova inferiore alle aspettative. La sua non è e non è mai stata una vocalità imperiosa, bensì ben proiettata sul fiato e adeguata al repertorio affrontato. Gli spazi dell'Adriatic Arena e la concertazione pesantuccia di Renzetti possono non aver favorito né lei né Flòrez (neppure lui un peso massimo vocale, neppure lui sempre perfettamente udibile), ma sentirla sparire così nella cabaletta di Didone “Ah! quanto pena un'anima”, affondando fra coro e orchestra, non è stato un piacere. Soprattutto perché questa Scena lirica sulla carta sembrava scritta appositamente per la personalità e la voce del soprano angloaustraliano, della regalità sofisticata, del canto prezioso, intenso e astrale che avevamo amato proprio a Pesaro in Adelaide di Borgogna, Ciro in Babilonia, Aureliano in Palmira, per non parlare del memorabile concerto del 2012. Pur con i citati lampi di splendore apparsi occasionalmente, il tutto è parso più teso e meno levigato, soprattutto meno incisivo nel colorire la parola, arte in cui la Pratt era sempre parsa maestra, ma che qui è sembrata tradita da una fatica che non le conoscevamo finora. Quali siano le concause che hanno concorso a rendere un po' più accidentata e meno smaltata la preghiera cristiana, prima, la tragedia epica, poi, ci auguriamo davvero che basti un po' di riposo per renderci la Pratt che tutti amiamo.

L'amore per gli artisti, oltre che per Rossini, è, d'altra parte, quello che ha ispirato gli applausi al termine di ogni brano, più tonanti della tempesta che, nel bel mezzo della Messa, ha fatto rimbombare l'involucro dell'Adriatic Arena (e piombare qualche goccia di pioggia anche sulla platea, rendendo ancora più impellente la necessità dell'annunciato ritorno al vecchio Palafestival in centro). Anche rilevare un problema può essere, però, un atto d'amore, nella speranza che sia di stimolo per una risoluzione. Ai diretti interessati, poi, la riflessione sulle ragioni e il valore di plausi e osservazioni.

foto Amati Bacciardi


 

 

 
 
 

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