Corpi pulsanti all’unisono
di Michele Olivieri
L’emergenza sanitaria ci ha imposto un nuovo comportamento. Il teatro vive ancora di restrizioni, ma questo non significa sospendere ogni attività e non coltivare più gli interessi, necessita solo alternare le abitudini e fruirne in maniera differente. Grazie al web importanti proposte arrivano direttamente a casa dando così una solida mano alla cultura e un senso di aiuto per ciascuno di noi. Sul sito istituzionale dello Staatsballett Berlin è stato trasmesso in streaming gratuito (disponibile solo 24 ore) la creazione coreografica di Sharon Eyal con Gai Behar (assistente Rebecca Hytting).
A chi dice che nella danza tutto è già stato inventato, forse è perché non si è accostato all’arte di Sharon Eyal, coreografa israeliana e figura di spicco nella scena della danza contemporanea internazionale. La tensione che accompagna l’intera creazione (che supera i limiti del classico, ma anche del contemporaneo) in circa cinquanta minuti si accumula passo dopo passo per sfociare sorprendentemente in una pacificazione finale. Un’esperienza di danza assolutamente differente, per certi aspetti strana e profondamente intima. Il pezzo si potrebbe guardare e riguardare all’infinito, perché nel momento in cui la ripetizione appare vecchia e scontata, tutto torna nuovo e ricomincia con maggiore entusiasmo e consapevolezza, la sincronia esecutiva è incredibilmente esemplare, la resistenza dei danzatori è lodevole. Half Life in streaming dalla Komische Oper di Berlino (il debutto nella capitale tedesca è avvenuto nel luglio 2018) con gli atomici ballerini dello Staatsballet Berlin (Filipa Cavaco, Mari Kawanishi, Olaf Kollmannsperger, Konstantin Lorenz, Sacha Males, Ross Martinson, Johnny McMillan, Danielle Muir, Daniel Norgren-Jensen, Eoin Robinson, Tabatha Rumeur, Federico Spallitta) prende avvio con un danzatore e una danzatrice immersi in una scenografia spogliata nella fosca partitura elettronica di Ori Lichtick. Una donna procede da ferma, mentre l’uomo al suo fianco reitera un esteso pungolo del bacino. Lentamente, i due vengono raggiunti da un gruppo di altri danzatori che appaiono nudi, senza mai cadere nella volgarità. La forte necessità di muovere gli arti dà vita a segmenti rapidi e ciclici, espandendosi di colpo, restituendo una prestanza pressata, ricca di pulsazioni nonché di compulsioni. Il modo di interrogare il corpo, il movimento e le sue infinite possibilità applicate al gesto e alle dinamiche da parte della coreografa, in coppia con il co-coreografo Gai Behar, risulta penetrante, è una ritmicità fisica disagevole che obbliga gli artisti (e lo spettatore) a scrollarsi di dossi le abituali modalità di pensiero. Una creazione che sfida gli artisti, i quali vengono continuamente provocati sia a livello fisico sia mentale per raggiungere un’intensità espressiva personale, portandoli in luce ad intermittenza, segnando il loro singolare carattere.
I due coreografi sono direttori e fondatori dal 2013 della L-E-V Dance Company con sede a Tel Aviv, e la presente creazione è stata pensata nel 2017 per il Royal Swedish Ballet di Stoccolma; la Eyal in passato ha fatto parte della Batsheva Dance Company praticando il linguaggio Gaga di Ohad Naharin, facendole adottare un proprio stile futuristico. Buona parte dell’attrattiva è data dalla musica creata di pari passo con il processo coreografico, che ricalca una cultura pop con riferimenti accademici, anche se il tutto non è classificabile nella canonicità dell’offerta attuale (e questo è un bene perché significa creatività, sperimentazione e ricerca dell’evoluzione). Il pubblico ritrova corpi spinti all’estremo, simmetrici nella loro asimmetricità, esplorando una pletora di emozioni oscure, ossessive, talvolta contorte, ma esteticamente suadenti e salvifiche: i corpi androgini appaiono affrescati come fossero sculture. L’uso della musica techno e house associata alle tipiche movenze della “danza da discoteca” diventano sinonimo di libertà, un chiaro messaggio nell’ottenere il massimo effetto e la suggestiva resa esecutiva, minimalista ma concentricamente piena. In qualche modo Half Life non è altro che lo specchio dei quotidiani allenamenti a cui sono sottoposti i danzatori, l’ossessione al raggiungimento della perfezione, le estenuanti prove, il controllo del corpo, le ripetizioni per far fede alle correzioni, un rito che fa parte della coreutica e della vita quotidiana di chi sceglie la danza, in particolar modo la carriera professionale. Infiniti applausi hanno accolto alla ribalta i danzatori, una standing ovation, come per continuare a pulsare all’unisono in un vitale battito cardiaco. La distinzione dell’allestimento (costumi e trucco di Rebecca Hytting, luci di Alon Cohen, ripresa e montaggio di Jubal Battisti Photography) è la quintessenza della freschezza, senza mai eludere un ragionamento, escludendo a priori ciò che è giusto o sbagliato, intelligente nel far muovere il corpo con la testa senza addormentare le coscienze, rivelatrici ed ipnotiche.