L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

À la recherche de la femme perdue

 di Andrea R. G. Pedrotti

Latita il fascino dell'eterno femminino tersicoreo nella rilettura del capolavoro di Čajkovskij proposto al Teatro Grande di Brescia con il Ballet du Grand Théatre de Genève. Da lodare in ogni caso l'attenzione rivolta alla danza dal cartellone del Massimo cidneo.

BRESCIA, 22 ottobre 2017 - Se un merito va dato alla Fondazione Teatro Grande di Brescia è quello di cercar di mantenere vivo, a differenza delle altre istituzioni del circuito lirico lombardo, un comparto artistico, la danza,  inspiegabilmente svilito in Italia. Come sempre il pubblico locale ha risposto affollando la sala in maniera decisamente più copiosa anche rispetto a molti spettacoli lirici. La media anagrafica degli spettatori, in gran parte di sesso femminile, è più bassa del solito, sicuramente per la presenza di studenti e insegnanti delle scuole di danza della provincia, ma che da sola non giustifica certo una partecipazione decisamente superiore rispetto ai territori limitrofi, dove pure gli istituti, anche solo per l'infanzia, non mancano.

In molti, compreso il sottoscritto, si aspettavano di assistere all’esecuzione, in forma moderna, di Lo Schiaccianoci di Pëtr Il'ič Čajkovskij con libretto di Marius Petipa, ma con diversa coreografia rispetto a quel che si è abituati a vedere tradizionalmente. A Brescia, invece, nonostante le indicazioni di locandina è andato in scena un nuovo balletto dalla trama molto simile a quello tratto dal racconto di E. T. A. Hoffmann Nußknacker und Mausekönig (Schiaccianoci e il re dei topi) e dalla seconda versione della vicenda scritta dal poeta tedesco, a firma di Alexandre Dumas père.

Ciò che cambia in questa nuova coreografia di Joroen Verbruggen, creata per il Ballet du Grand Théatre de Genève,  è una drammaturgia mutata non drasticamente, ma considerevolmente sì. Non solo le vicende narrate sono cambiate, ma anche la musica (indipendentemente da un taglio complessivo di circa quindici/venti minuti) risulta riadattata nei numeri all’idea – non particolarmente incisiva – del coreografo.

La danza non è un’arte ermafrodita, ma decisamente femminile, è attraente, elegante, uno sterminato glossario di cinesica e prossemica, redatto ben prima che le due discipline fossero codificate. Il linguaggio non verbale e una forma espressiva dell’animo quasi borderline (ma in maniera soave e coinvolgente) hanno caratteristiche muliebri, conoscibili verso chi provi empatia verso esse, totalmente sconosciute ad altri.

Questa era la mancanza principale della coreografia di Joren Verbruggen, la componente femminile, quella sfaccettatura misteriosa capace di stimolare curiosità e dipendenza. All’inizio della vicenda ci si appropinqua a una festa di danza, alla quale partecipano delle (citiamo il programma di sala) “smaliziate fanciulle”. Il problema è che, fatta eccezione per qualche momento isolato, i movimenti delle ballerine erano troppo muscolari, dal sapore quasi virile. Dov’è la sinuosa, leggiadra eleganza femminea? Un gineceo che fa ben comprendere le proprie velleità, diviene mascolino. Dumas (figlio questa volta) citò un racconto, nei primi capitoli della sua Dame aux camèlias, circa un giovane incredibilmente attratto dal fascino e dall’eleganza di una fanciulla capace di seguirla anche solo per scorgere, di fronte a una pozzanghera, il lieve sollevarsi di un lembo della gonna, sperando di scorgerne la sottile caviglia, ma, giungendo sull’uscio di casa, anche di allontanarsi sconsolato di fronte all’invito della fanciulla di salire assieme le scale. Nella coreografia di Verbruggen abbiamo solo l’invito a salire assieme a casa e questo non è attraente, non crea dipendenza, non è carismatico. Un uomo, è vero, potrebbe anche accettare un invito del genere da un corpo femmineo dall’animo androgino, ma solo per un’esperienza fugace, fisiologica. La danza è altro, è solo la parte della seduzione emotiva.

Talvolta la linea musicale di Čajkovskij, morbida e avvolgente, contrasta con i movimenti del palcoscenico, creando uno scollamento capace, tuttavia, di ricomporsi in belle intuizioni cromatiche, nel gioco degli specchi e in luci ben studiate.

A minare l’atmosfera di leggenda è la necessità (che anche in questo caso fa virtù) di registrare una base e rinunciare all’accompagnamento orchestrale dal vivo. Su queste pagine, in passato, avevamo recensito la medesima coreografia (L’Oiseau de feu di Igor Stavinskij, leggi la recensione del 14/08/2015 e del 05/05/2016), firmata da Renato Zanella, con la medesima protagonista, Alessia Gelmetti prima al Teatro Romano, poi al Teatro Filarmonico, sempre a Verona, e le differenze nel coinvolgimento che se ne ricavava erano notevoli, a favore dell’esecuzione con orchestra al Filarmonico. A Verona la drammaturgia, era, tuttavia, funzionante in entrambe le sedi e la natura stessa della danza era, per questo, preservata.

Bravi tutti gli interpreti, a partire dai tre protagonisti Yumi Aizawa (Marie), Zachary Clark (Il Principe Schiaccianoci) e Simone Repele (Drosselmeier).

Le scene e i costumi erano a cura di Livia Stoianova e Yassen Samouilov e le luci di Ben Ormerod.

Bene tutto l’ensemble del balletto ospite del Grand Théatre de Genève.

Il saggio a firma di Valentina Bonelli è ben scritto, ma sottolinea inizialmente come il prossimo anno si celebrino i duecento anni dalla nascita di Marius Petipa (librettista, ma mai coreografo di Lo Schiaccianoci), per poi occuparsi principalmente della versione classica (anche citando le varie edizioni video), con pochi riferimenti a quello che abbiamo effettivamente visto sul palco del Teatro Grande.

foto Gregory Batardon


 

 

 
 
 

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