L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Un viaggio in accordo tra musica e materia

di Michele Olivieri

I danzatori scaligeri – tutti – ritrovano così il proprio respiro e lo fanno suonare sull’essere e sull’esistere, lasciando al pubblico l’immedesimazione come riflesso del sé.

MILANO, 30 novembre 2019 -Nel trittico in danza, visto alla pomeridiana della settima rappresentazione, un brillio si stende ovunque, l’onda dei pensieri scorre in un senso di pace e di appagamento estetico. Il linguaggio è codificato ed aperto all’originalità della singola creazione, su cui emerge evidente che non sussiste tradizione o novità che non generi un filo invisibile nel tempo, evocando il futuro, parlando al presente e guardando verso il passato con un senso coreografico di esistenza.

Inutile presentare ogni balletto con notazioni storiche, in quanto già ampiamente descritte nelle presentazioni uscite a ridosso del debutto. In scena l’eleganza e l’armonia di George Balanchine invocano quella sorgente ballettistica perfettamente inappuntabile, passando così per l’intensa poetica teatrale di Jiři Kylián, concludendo nella deificazione firmata da Maurice Béjart.

Con Symphony in C sulla musica di Georges Bizet si tocca l’espressione più piena della fisicità accademica. La danza di Balanchine è sempre un raro momento di concentrazione interiore, un rito corporeo completo, una meditazione che coinvolge l’intero essere. Questo titolo è un intercalare da danzatore a danzatore, il risultato di una netta celebrazione attiva con l’arte da vivere in maniera totalizzante. La creazione, ripresa da Patricia Neary è aderente allo spazio storico, rivelando ad ogni accento un proprio tempo cronologico e ritmico. I quattro movimenti appaiono affrescati nei ricercati costumi della famosa costumista Karinska e nelle luci di Andrea Giretti: nel primo allegro vivo, Martina Arduino e Nicola Del Freo sviluppano una danza gioiosa in crescendo, vestendosi così di un sogno vissuto. Nel secondo, adagio, Nicoletta Manni e Marco Agostino sviluppano una danza nostalgica, velata di melanconia, delicata come il loro essere. Nel terzo, allegro vivace, Gaia Andreanò e Christian Fagetti sviluppano una danza arguta che assume forma giocosa nella convincente suasività. Nel quarto, finale allegro vivace, Maria Celeste Losa e Mattia Semperboni sviluppano una danza rigogliosa, spogliando le parole in un silenzio del corpo per vestire il gusto. Un’azione quadrupla concertante di assoluta beltade.

Su Petite Mort c’è poco da soggiungere, quando un capolavoro diventa tale ed entra nella leggenda ogni parola risulta non indispensabile. La compagnia scaligera si è messa alla prova con un pezzo di altissima precisione, riuscendo a cogliere l’essenza del genio coreografico di Jiři Kylián (qui ripreso da Shirley Esseboom) tanto da fondere il corpo e la parte immateriale in un insieme proporzionato e simmetrico, capace di porre in risalto spessori in quel vuoto pieno di significati intimi e graffianti, sottolineato dall’ordinata esecuzione di Takahiro Yoshikawa al pianoforte, il quale ha accompagnato la platealità della produzione con i due concerti di Mozart ispirando Nicoletta Manni e Mick Zeni, Alessandra Vassallo e Marco Agostino, Giulia Schembri e Marco Messina, Francesca Podini e Nicola Del Freo, Chiara Fiandra ed Eugenio Lepera, Benedetta Montefiore e Fabio Saglibene. Superbi i costumi di Joke Visser.

Il pezzo più atteso, Boléro di Maurice Béjart (con la supervisione coreografica di Gil Roman e la ripresa di Keisuke Nasuno) si è aperto sull’ammaliante partitura di Maurice Ravel trasformata dal maestro marsigliese in mimica e torsioni, irresistibile ancora una volta per le singolarità feconde ed inventive che di pari passo, con il crescendo musicale, elevano la suggestione in un abbraccio tra uomo e universo. È apparso in scena sull’iconico tavolo, Gioacchino Starace, la sua prestazione si è rivelata in graduale aumento, catturando progressivamente un’emozionalità luminosa, raggiungendo nelle battute finali l’autentica intenzione con palpabili suggestioni - invitanti e tentatrici - coadiuvato da Massimo Garon, Gabriele Corrado, Mattia Semperboni, Nicola Del Freo e dal corpo di ballo. Una produzione anch’essa eterna, che fiorisce in un canto chiamato a celebrare la vita, la natura e l’universo. Il corpo liberato esplode in un fiume di energia ed erotismo che sembra non avere fine, dialogando all’unisono con la musica in un rimando ipnotico, coadiuvato dall’Orchestra del Teatro alla Scala diretta da Felix Korobov.

Il trittico nella sua totalità dona un qualcosa che assomiglia alla libertà, lascia nascere la verità nell’istante, dal corpo all’anima. La danza appare nelle sue molteplici forme che permettono un collegamento all’essere e all’esistere per narrare le profondità antropiche, presentando differenti verbi coreici sui modi e sui tempi storici, apportando valore al presente che è intriso di passato e futuro. Balanchine, Kyliáne, Béjart ci ricordano, ognuno con il proprio stile, che una parte di noi è sempre lì ad aspettarci in un inedito viaggio, in accordo tra sonorità e materia.

Il Direttore del Corpo di Ballo Frédéric Olivieri ha posto in primo piano, con la scelta dei tre titoli, l’energia vitale che l’artista deve saper trasmettere al pubblico, entrando in un parallelo. I danzatori scaligeri – tutti – ritrovano così il proprio respiro e lo fanno suonare sull’essere e sull’esistere, lasciando al pubblico l’immedesimazione come riflesso del sé. Da segnalare per presenza espressiva e disposizione innata i giovani Endi Bahaj e Linda Giubelli.

Ripetuti applausi e calorose approvazioni hanno accolto gli artisti nei saluti di chiusura, riservando a Starace, l’esultanza.


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