L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Nella tela del ragno

di Roberta Pedrotti

L. Janáček

Z mrtvého domu

Rose, Sotnikova, Briscein, Workman, Skovhus

direttrice Simone Young

regista Frank Castorf

orchestra e coro della Bayerische Staatsoper

Monaco di Baviera, Bayerische Staatsoper, maggio 2018

DVD BelAir Classiques 2020, BAC173

 

Quella di Z mrtvého domu, Da una casa di morti, è una non trama, un'esile cornice per un'intreccio di trame che sono per lo più ricordi del passato. Un uomo, Alexandr Petrovič Gorjančikov (alter ego di Dostojevskij da un cui romanzo autobiografico è tratto il libretto), scende nell'abisso di un campo di prigionia, conosce la vita dei carcerati, le loro vicende personali, scagionato riemerge, torna alla libertà come l'aquila risanata che nella prima scena i prigionieri avevano raccolto ferita. 

Sul filo sottile del percorso interiore, della discesa agli inferi e della resurrezione, della metafora della libertà e della prigionia in diverse forme, dell'orrore e dell'istinto il regista Frank Castorf tesse la sua tela. Una tela di ragno, ce lo suggerisce anche un manifesto, affisso in un angolo, in cui campeggiano una minacciosa donna-aracnide e un'altra donna - assai simile alla prostituta interpretata da Niamh O'Sullivan - armata di scure - la stessa brandita dall'allucinato Šiškov - sullo sfondo spettrale di un edificio annidato su un cucuzzolo. È la locandina del film Amityville - Death House, che nulla pare aver in comune con l'opera di Janáček se non un'assonanza nel titolo e, quindi, una libera associazione di idee, irrazionale e onirica, intorno a delle parole, intorno a un luogo maledetto che si fa fulcro e protagonista della narrazione. 

La tela si sviluppa e avvolge la struttura scenica ideata da Aleksandr Denič, un immobile dall'aria fatiscente, che sembra essersi sviluppato nel tempo in maniera irrazionale, cresciuto su se stesso con aggiunte di fortuna, labirintico teatro di una doppia prigionia, quella fisica dei detenuti male in arnese stretti fra recinzioni di filo spinato, percossi da sadici vigilanti sotto la luce implacabile dei fari, quella inafferrabile e pervasiva di una telecamera che, sotto l'imperituro neon blu rosso del logo Pepsi, scruta ogni dettaglio e lo rimanda su uno schermo misto a frammenti di ciò che viene raccontato o immaginato, mentre i prigionieri compaiono in distinti abiti neri, uomini liberi e rispettabili, ma anch'essi rinchiusi in una "casa di morti" come i conigli vezzeggiati nella loro gabbia. Una tela di associazioni, dunque, ma anche un gioco di scatole cinesi, un labirinto concentrici permeati dal tema conduttore non solo delle diverse accezioni di libertà, ma anche dell'inconscio - rappresentato da carnevaleschi scheletri mutuati dal folklore messicano - e dall'istinto - l'eros incarnato dalla prostituta e dalla rappresentazione di Don Giovanni, ma anche sublimato nell'identificazione fra l'aquila sgargiante di piume come una ballerina di varietà e il giovanissimo prigioniero tartaro Aljeja (il soprano Evgenyiya Sotnikova), dall'identità di genere delicatamente fluida. Alla fine, anzi, è quasi più la storia dell'aquila/Aljeja, della sua caduta, della sua trasformazione e presa di coscienza attraverso il percorso umano infero, della sua ritrovata libertà il nocciolo drammaturgico, visto attraverso gli occhi di Gorjančikov, dell'esperienza onirica e interiore dell'intellettuale arrestato per ragioni politiche. Gli presta volto e voce unp straordinario Peter Rose, a capo di un cast perfettamente assortito, di cui vanno citati almeno il Šiškov corroso fin nel fisico dalla sua ossessione di Bo Shkovus e lo Skuratov di Charls Workman, guizzante e leggiadro, e perciò ancor più incisivo nel contrasto con la viscosa palude infernale, nella sua follia amorosa.

Quando si parla di Bayerische Staatsoper si parla di eccellenza di mezzi tecnici, ben evidente anche in dvd, si parla di ensemble impeccabile, si parla di un'orchestra ai massimi livelli mondiali. Forse la concertazione, solida e ben strutturata, di Simone Young non sarà quel capolavoro di finezza che abbiamo sentito sviluppare altre volte nel tessuto musicale e drammaturgico di Janáček, ma mantiene il giusto ritmo, la qualità dei musicisti in buca splende e ammalia, in perfetta sintonia con il lavoro denso e complesso di Castorf, ricchissimo di dettagli ma non ridondante, bensì intricato come un incubo a sviluppare il coagulo di mondi e visioni nell'apparente essenzialità di un libretto in cui un uomo entra ed esce da un carcere incrociando i destini di altri uomini. 


 

 

 
 
 

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