L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Stiffelio senza rivelazione

 di Francesco Lora

Il raro titolo verdiano va in scena alla Fenice in uno spettacolo poco attento alla straordinaria attualità del soggetto. Monocromatica la lettura musicale di Rustioni, decorosa ma senza zampate la compagnia di canto: Secco, Di Giacomo, Platanias.

VENEZIA, 28 gennaio 2016 – Requiem per la fine di un’eccellenza. I programmi di sala del Teatro La Fenice, fino alla scorsa stagione d’opera, non erano semplici souvenir di uno spettacolo, ma strumenti di studio d’insostituibile pregio, con saggi inediti che ne facevano veri e propri numeri di rivista scientifica, e con analisi drammaturgico-musicali di alto profilo: volumetti da tenere sempre alla portata e da procurarsi anche senza aver assistito alle relative recite. Ora si è scesi dall’Olimpo anche a Venezia: i programmi di sala sono divenuti smilzi quadernetti, senza libretto impaginato – lo si può leggere online; dovrebbe sembrare la stessa cosa? – e con saggi riciclati o di modesto profilo divulgativo. Peccato. Tanto più che la malaugurata idea coincide con un allestimento quantomai degno dell’apparato dismesso: Stiffelio di Giuseppe Verdi, cinque recite dal 22 gennaio al 3 febbraio, è titolo insigne ma rappresentato di rado, travagliato nella genesi e con ruolo biografico pregnante, banalizzato come non altro dalla censura dell’epoca; quantomeno il ripristino delle lezioni originali, effettuato nell’edizione critica a cura di Kathleen Kuzmick Hansell e portato in scena alla Fenice, avrebbe meritato ampia valorizzazione presso la platea e il lettore.

Per la verità, si tratta di uno spettacolo nell’insieme tanto degno di speciale attesa quanto ordinario o modesto nello svolgimento. Chi temesse sacrilegi da Regietheater, nel leggere i nomi in locandina, può tirare il fiato nella pace generale: il nuovo allestimento con regìa di Johannes Weigand, scene e luci di Guido Petzold e costumi di Judith Fischer è infatti minimale nelle strutture, ma d’impostazione tradizionale e anzi fedele alla singola didascalia; suo primo cruccio pare essere uno studio tale dei movimenti, da non far troppo torreggiare una primadonna opulenta su un tenore tutt’altro che imponente. Quanto fatto e detto non è bastante, tuttavia, se si considera la straordinaria attualità di un soggetto che contempla l’adulterio nella casa di un pastore protestante, il delitto d’onore freddamente consumato dal padre di lei, la denuncia in filigrana del perbenismo borghese sulle unioni, infine il perdono tuonato dal pulpito in luogo dell’aspettata condanna, brandendo il Vangelo e dando luogo al più affilato dei finali lieti.

Non persuade, a sua volta, la concertazione di Daniele Rustioni. Un Verdi raro ma ambizioso, in un teatro dotto e importante, imporrebbe uno studio capillare, se possibile geniale, capace di rivelare le sottigliezze di parole e musica con specifica abnegazione e caparbietà. Si ascolta invece una lettura monocromatica nei toni del grigiastro, condotta in modo rigido, brusco e sbrigativo, con tale secchezza di gesto da rasentare l’indeterminazione del suono nella rabbia degli accordi strappati o percossi. Non in tale àmbito, plumbeo e superficiale, si potrebbe cogliere la progressione narrativa, lo scavo psicologico, l’evoluzione ambientale attraverso il lavoro con l’orchestra e il coro, e attraverso lo studio con la compagnia di canto. È una lettura di professionalità onesta e un poco intimorita, là dove poteva essere còlto il destro di una rivelazione.

Decorosa e solida la compagnia di canto, ma priva anch’essa di zampate memorabili. Piccolino è in particolare Stefano Secco nella parte protagonistica: il tenore si presenta adeguatamente preparato, ci s’intenda, e nella sua canonica buona forma vocale, ma difettano la personalità del timbro (anonimo), l’insolenza dell’estensione (cauta), lo scoppio del volume (contenuto) e la fragranza del fraseggio (compitato); manca affatto l’accento commosso o bruciante, nel quale unicamente potrebbe sostanziarsi un personaggio privo d’arie e colmo di carattere. Giusta attenzione intorno alla Lina di Julianna Di Giacomo, soprano che in Italia si è di recente distinto per colore, smalto e risonanza; sulle prime esitante, fredda, fissa, con ornamentazione laboriosa e arcate di suono non ben continue e ferme, l’interprete va risalendo dall’atto primo al terzo, e perviene infine a considerevole spessore drammatico e ammirevole esibizione di mezzi non comuni.

Tutte le note rispondono all’appello, poi, nello Stankar del baritono Dimitri Platanias. Soprattutto nel suo caso, però, si coglie quale ipoteca lasci su una carriera internazionale un’anagrafe e una formazione entrambe non italiane: si ascolta l’iroso sdegno del vecchio soldato, ma con esso fatica a convivere il padre umiliato; si ascolta l’acuto impavido a coronamento della cabaletta, ma il cantabile è povero di legato, calore, involo, duttilità, morbidezza, trasalimento interiore. Come spesso accade con cantanti stranieri in suolo verdiana, si direbbe che l’interprete prenda spunto da un solo affetto dominante nella scena, e che in esso solo investa tutte le proprie risorse, senza possedere tanto stile e tanta scuola da saper continuamente movimentare il personaggio nel poliedro di dubbi, angosce, umane contraddizioni. Funzionale il comprimariato: Francesco Marsiglia come Raffaele; Simon Lim come Jorg, Cristiano Olivieri come Federico di Frengel, Sofia Koberidze come Dorotea. Anche alla recita serale di un giorno feriale, non soggetta all’internazionale viavai del carnevale, teatro colmo e scena al centro dell’attenzione.


 

 

 
 
 

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