L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Albert Herring a Firenze

Niente sesso, siamo inglesi

 di Roberta Pedrotti

Il "Re di Maggio" Albert Herring trionfa al Maggio Musicale Fiorentino in un allestimento impeccabile, in cui la commedia scorre con delisioso humor britannico senza eludere, ma accarezzando con grazia, gli aspetti più complessi e problematici di un soggetto in tutto coerente, benché nell'inedito sviluppo comico, con i temi portanti della poetica di Britten.

FIRENZE, 29 maggio 2016 . Chissà, forse il pubblico italiano – o meglio, una fetta non indifferente di esso – ha la memoria un po' corta o forse difetta di un pizzico di sana curiosità: fatto sta che ogni volta che si rappresenta un'opera di Britten si intendono sempre e solo commenti soddisfatti, commozione e partecipazione, anche da parte degli spettatori meno esperti di teatro musicale del Novecento, tuttavia ogni volta si fatica a riempire il teatro per quelli che dovrebbero ormai essere assodati come grandi classici al pari dei capolavori di Verdi, Mozart, Handel.

Perfino in quest'occasione, recita pomeridiana nella collocazione ideale del Teatro della Pergola per il Maggio Musicale Fiorentino – teatro e rassegna che ne videro anche il debutto italiano nel '68 –, la pur non immensa sala fatica a riempirsi, accogliendo un pubblico non oceanico ma ben ripagato da un allestimento memorabile di Albert Herring. E tanto peggio per gli assenti!

L'occasione per assistere all'unica opera apertamente comica di Britten, specie in Italia, non capita troppo di frequente ed è un peccato, perché si tratta di una delle commedie più spassose, intriganti, sfaccettate che si possano immaginare. Piena di leggerezza e francamente divertente, la storia di Albert in realtà si presta a letture più profonde e non si discosta dalle tematiche chiave intorno a cui ruota la poetica britteniana: l'innocenza malintesa, incompresa, vilipesa, l'ipocrisia e la repressione degli istinti cui risponde non un anelito di ribellione, bensì la semplice ricerca della serenità.

Albert, controllato in maniera ossessiva e oppressiva dalla madre al punto da evitare perfino la tentazione del gioco d'azzardo rappresentata dal lancio della moneta, è l'unico giovane a poter essere considerato virtuoso per i rigidissimi criteri dei notabili locali tiranneggiati da Lady Billows e si trova così costretto a vestire i candidi e floreali panni del Re di Maggio in luogo della canonica virginea Reginetta. L'esuberante Sid, garzone di macelleria, e la sua ragazza Nancy, commessa di panetteria, per scherzo correggono la sua limonata con dell'alcol e l'inedita sbronza porterà finalmente Albert a provare qualche trasgressione con massimo scandalo dei concittadini: nella novella di Maupassant da cui l'opera è tratta il protagonista finirà da un eccesso all'altro e morirà alcolizzato; nell'opera, semplicemente conquisterà il diritto di rilassarsi, divertirsi, essere un giovane come tutti gli altri. Conferma, insomma, che tutto quel vortice di perdizione in cui sembrava sprofondare la gioventù inglese (andare in calesse in una domenica di Quaresima, aprire al postino in veste da notte, passeggiare mano nella mano con un ragazzo) è quanto di più innocente si possa immaginare, mentre il peccato sta negli occhi puntati dell'ossessione puritana dei notabili, nonché, è facile intuire, nelle loro condotte private (già solo nell'orgoglioso racconto di Lady Billow, l'immagine del defunto Lord che seleziona le Reginette e siede loro accanto durante il banchetto del May Day lascia immaginare che il nobiluomo gradisse assai la compagnia delle fanciulle e conducesse selezioni molto approdondite…).

D'altra parte, la comunità di Loxford è sostanzialmente omologa a quella del borgo di Peter Grimes, solo che la tragedia mutò in commedia, il perbenismo ipocrita è filtrato attraverso la lente dell'ironia e non del dramma, al punto che l'ingenuità candida e sensibile di Ellen Orford rivive ora nella dabbenaggine ottusa, e perfettamente, indubitabilmente fedele alla linea moralistica cittadina, di Mrs Wordsworth. Rivivono o si profetizzano altri personaggi fondamentali della produzione britteniana e più ancora che del tardo Prodigal Son (1968) Albert pare fratello di Billy Budd, vuoi per la totale innocenza che lo isola dal mondo che lo circonda, ammirato irriso o sospettato, vuoi per la forza fisica che lo contraddistingue, vuoi per l'afasia che lo coglie durante il banchetto, tanto simile alla balbuzie che condannerà il povero marinaio. Harry, Emmie e Cis non hanno, ovviamente, le ombre inquietanti di Miles e Flora, ma condividono con loro – e in generale con l'immagine britteniana dell'infanzia – il gusto per le filastrocche, dei giochi e delle canzoni per bambini.

Il gioco di specchi drammaturgico è anche musicale, con un gusto strumentale per l'onomatopea, per la creazione di una vera e propria concreta scena sonora in un organico pressoché cameristico che ha del miracoloso e si abbina a un gioco sofisticatissimo di citazioni che va dai concertati di Falstaff, al Ranz de vaches fischiettato da Albert (un po' Pastorale beethoveniana un po' Guillaume Tell, un po' preludio al sonetto di Fenton, vagheggiato anche altrove) passando per temi popolari, reminiscenze di Purcell e una proclamazione di Albert come Re di Maggio (l'annuncio alla madre, “We bring great news to you”) che sembra rifarsi alla stessa radice di “Ah! Voyez! Le ciel s'ouvre et rayonne” dal finale di Les huguenots. Tutto, naturalmente, con la maestria tipica e teatralissima di Britten, che padroneggia contrappunto e lirismo (gli intermezzi sono, al solito, dei capolavori), incanta nel gusto della parola e nel gioco delle parti, nel ritmo, nell'ironia, nella capacità di rendere, per esempio, il mormorìo indistinto della piccola folla paesana. Sofisticato e immediatamente comunicativo, come sempre e come sempre irresistibile.

Basterebbe, dunque, il titolo per accorrere numerosi ogniqualvolta Albert Herring – come ogni opera di Britten – appare in un cartellone, tanto più che la rarità comporta almeno il vantaggio dello sprone per le direzioni artistiche a riservare cure particolari alla produzione: cast di specialisti (fondamentali per respirare e comunicare il peculiare humor british dell'opera), direttori non meno dediti alla causa, registi di valore o comunque sempre ispirati (mai vista, per fortuna, una messa in scena di un'opera di Britten teatralmente deludente).

Eccoci dunque a Firenze ad applaudire sul podio Jonathan Webb, vale a dire il direttore che più di ogni altro si trova negli ultimi anni a reggere i vessilli britteniani nei nostri teatri. La confidenza con questo repertorio è fuori discussione, la sicurezza, l'esattezza, l'equilibrio dell'esecuzione una garanzia, tanto più che il cast è eccellente, un concentrato di arguzia, spirito, carattere e musicalità in figure ideali per ciascun personaggio.

Sam Furness, semplicemente, è Albert in ogni fibra, bonaccione, rigoroso, ossequioso, man mano più insofferente, inquieto, tormentato ragazzone dalla voce fresca, luminosa, salda ed espressiva. E si potrebbe immaginare una Lady Billows più azzeccata di Orla Boylan, che non sfigurerebbe come Lady Bracknell in The Importance of being Earnst? E Gabriella Sborgi come burbera governante Florence è la sua spalla ideale. Con quell'aria da impeccabile maestrina vittoriana, Anna Gillingham fa di Miss Wordsworth un impagabile gioiellino perfettamente contrapposto alla freschezza schietta di Rachel Kelly nei panni di Nancy. Manuela Custer, poi, incarna come meglio non si potrebbe la madre tirannica, vedova male in arnese ma capace di sfoggiare un irresistibile completino buono rosa confetto e di civettare con il capo della polizia. Questi, al secolo Karl Huml, cattura subito la simpatia con il suo fare semplice e schietto, un tipo pratico ben contrapposto alla prosopopea del sindaco Upfold (lo stralunato, parimenti bravissimo, Christopher Lemmings) e alla retorica del parroco Gedge (Zachary Altman, abile nel giocare fra le virtù del buon curato di campagna, le debolezze e i vizi dell'uomo). Di tutt'altra pasta il Sid di Philip Smith: un buon ragazzotto, allegro e franco il cui disinvolto amore per la vita causa, fra gli occhiuti moralisti, una sproporzionata fama di mascalzone. Perfetti, infine, i tre ragazzi, ben caratterizzati nella loro innocente monelleria: l'impertinente Harry (Nicholas Challier), Emmie (Sophie Gallagher), apparentemente più sicura di sé e disinvolta, Cissie (Bonnie Callaghan), la più emotiva.

Un gioco teatrale di così alto livello, una resa così efficace della commedia si deve al talento e all'intelligenza, oltre che dei singoli interpreti, del regista Alessandro Talevi, giustamente emergente fra i nomi più interessanti degli ultimi anni. Coadiuvato da Madeleine Boyd per scene e costumi e da Matthew Haskins per le luci, ricrea un clima deliziosamente british: union jack sventolanti, cappellini estrosi, abitini pastello, tappezzerie e trofei di caccia, buone maniere e sottintesi. Il salotto di Lady Billow avanza, al suo ingresso, con un coup de théâtre degno di una grande primadonna; i piccoli tic di ciascun personaggio (il parroco che sfiora la mano della maestra, qualche sguardo di sottecchi) suggeriscono quel che il moralismo ipocrita del Borgo non ammette, ma nasconde. Un cambio di luci e con gusto incisivo Talevi lo mostra nelle percezioni alterate di Albert ubriaco o nell'apparizione degli spettri delle precedenti, virginali Reginette di Maggio, come le suore del Robert le diable incitate – dallo spirito del defunto Lord Billow che prende vita dal suo ritratto – in una danza orgiastica che libera gli istinti repressi dei notabili. Ricordando che gli spettri sono interpretati da ballerini maschi si potrebbe far pensare a una scena un po' sopra le righe, a una sottolineatura forse eccessiva del tema dell'identità e dell'orientamento sessuale che pure può essere riconosciuto nell'opera: invece, e anche qui sta la grandezza di Talevi, l'effetto è ambiguo, sì, ma elegante e intrigante, dosato alla perfezione, né l'ombra di caricatura si ravvisa negli aggraziati e perturbanti danzatori. Anzi, forse non tutti, in sala, hanno fatto caso al loro sesso.

D'altra parte, la grazia con cui Talevi tratta la commedia è anche nella sua capacità di sfumare nel lirismo o nel dramma in perfetta misura, risultando perfino toccante nel monologo di Albert, rivolto al ritratto del padre presumibilmente morto nella stessa Grande Guerra che ha ferito quasi tutte le famiglie di Loxford e segnato la frattura generazionale, e nell'incalzante scena della ricerca notturna del disperso “King of May” con conseguente threnos funebre interrotto dalla riapparizione del redivivo reduce da una notte di – relativi – stravizi (ben tre sterline delle venticinque ricevute in premio per la sua castità spese in birra e forse altri esperimenti non detti o non ricordati). Si passa dal pianto al riso con una naturalezza straordinaria, consci che tutto finirà bene, ma tuttavia rapiti dalla bellezza di quei lamenti – anche di quelli nei quali Britten svela l'ipocrisia – e dall'ansia di quelle febbrili, benché a tratti grottesche, ricerche.

L'opera è un capolavoro e da capolavoro è stata rappresentata, al meglio, con tutti gli onori che merita. I presenti festeggiano con entusiasmo tutti gli interpreti, poi si torna a casa felici, pensando e ripensando a ogni dettaglio di quel che si è visto e sentito. Se c'è un rammarico è quello di non vedere indicata alcuna coproduzione: è possibile che questo allestimento nasca e muoia così, senza una ripresa già programmata? È possibile che non se ne sia predisposta una trasmissione televisiva, una diffusione in DVD? Ci auguriamo proprio di no.

foto © Simone Donati - Terraproject - Contrasto


 

 

 
 
 

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