L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Nabucco alle terme di Caracalla

Nabucco fra le rovine

 di Stefano Ceccarelli

Nabucco, capolavoro d’esordio di Giuseppe Verdi, è in scena per tutto luglio, fino alla prima decade di agosto, nella suggestiva cornice delle Terme di Caracalla. Una nuova produzione del Teatro dell’Opera di Roma affidata a una deludente regia di Federico Grazzini e alla direzione di John Fiore, che ci fa rimpiangere le due produzioni gloriose (2011 e 2013) dirette probabilmente dal maggior interprete oggi in vita di questa partitura, Riccardo Muti. Il cast vocale ha solo due voci di riguardo: Luca Salsi nel ruolo del titolo e Alisa Kolosova in quello di Fenena. Lascia veramente a desiderare l’interpretazione di Csilla Boross nel ruolo di Abigaille.

ROMA, 11 luglio 2016 – Nella cornice archeologica delle Terme di Caracalla sta andando in scena un Nabucco – una nuova produzione firmata Teatro dell’Opera di Roma – complessivamente sottotono sia a livello registico sia a livello musicale. E la cosa spiace sommamente, giacché la location è assai suggestiva e di per sé una scenografia naturalmente perfetta per un’ambientazione orientale: basti aprire il programma di sala (su cui leggo, anzi rileggo, con piacere, l’ormai famoso articolo del compianto P. Petrobelli) e scorgere le passate edizioni antoniniane dell’opera per rendersi conto dell’assurdità della scenografia che ci troviamo davanti, sostanzialmente per tutta l’opera. Lo scenografo Andrea Belli asseconda le direttive visive della regia di Federico Grazzini, una regia che lui stesso spiega doviziosamente all’interno di quattro pagine di programma e di cui poco o nulla percepiamo effettivamente nello svolgersi della stessa.

Recentemente mi è capitato di riflettere – non solo di notte, come faceva la Fedra euripidea – sulla natura delle regie contemporanee cui assistiamo quotidianamente in teatro (di prosa e d’opera) e che hanno come massimo comun divisore un’esagerazione barocca degli atteggiamenti dei personaggi, situazioni drammatiche marcate all’inverosimile, inutili, ridondanti superfetazioni a trame, storie, opere che – pur con i loro difetti – non si meritano un simile trattamento. È proprio la sensazione che ho avuto assistendo alla mise en scène proposta da Grazzini, la quale (eccetto due/tre momenti) è stata completamente fallimentare, facendo acqua da tutte le parti e rendendo l’opera cripticamente oscura in più di un passo. E persino illogica: l’idiosincrasia registica di Grazzini s’è raggiunta nella scena (pensata da Verdi come sfarzosa, tipicamente francese, da grand-opéra, genere cui Nabucco dichiaratamente s’ispira: si pensi al suo modello prediletto, il Moïse et Pharaon di Rossini) delle celebrazioni per la recente acquisizione del trono da parte della golpista Abigaille, dove al posto dei giardini pensili, dello sfarzo – o, almeno, di una qualche allusione ad esso – troviamo degli ebrei incarcerati dietro transenne da parcheggio che esultano al posto degli attesi assiri sotto una musica giustamente trionfale (il libretto riporterebbe, se non vado errato: «Donne babilonesi, Popolo e Soldati»). Non ci può essere nessuna esigenza registica – per quanto filosoficamente concettosa – che giustifichi una forzatura del genere. L’idea scenica di Grazzini è, poi, mortificante dell’interpretazione diegetica del Nabucco, rende quasi diafana, caliginosa la lettura drammatica della trama, non certo aiutata, peraltro, dal colpo d’occhio della scenografia, sempre uguale a sé stessa, con quest’insistenza sulle rovine (centrale nella narratologia registica di Grazzini), resa in maniera statica, con praticamente nessun cambio – se si eccettuano delle sorte di transenne da parcheggio di periferia – che renda l’attesa grandeur scenica dell’opera. Sì, la vivacità scenica: Verdi non aveva certo tralasciato quest’importantissimo fattore, creando scene corali di grande impatto visivo. Nulla del tempio di Salomone, dei Giardini Pensili babilonesi, delle sale della reggia di Nabucodonosor a Babilonia ci vengono donate, niente ci sollecita l’immaginazione verso un mondo orientale: è tutto uguale, grigio, in rovina, terrigno, un mondo post-apocalittico (questo, sì, certo à la page fra i registi). Le cromature grigie, verde militare, ci catapultano in atmosfere iper-moderne (i soldati babilonesi, abbigliati con tute militari, richiamano i videogiochi stile Metal Gear Solid); elementi di un gotico medioevo possiamo scorgerli nel costume da generalessa di Abigaille e in quello di Nabucco – i costumi sono a firma di Valeria Donata Bettella. Gli ebrei sono abbigliati prima come sfollati profughi e poi colle tute auschwitziane (e la sovrapposizione dell’olocausto nazista alla trama di Nabucco, benché certo non brilli di originalità, almeno non è illogica…). La regia di Grazzini, insomma, si chiude in un oscuro e illogico solipsismo: la tornitura dei personaggi pare lasciata all’arbitrio dei cantanti, con esiti scontatamente disastrosi come l’Abigaille della Boross o la totale staticità delle masse corali – uniche eccezioni: il Nabucco di Salsi e la Fenena della Kolosova. Assurda la scena della conversione di Fenena, in cui alle tavole della legge è sostituito un braciere ardente (allusione al roveto di Mosè?...); noiosissima quella del terzetto fra Fenena, Ismaele e Abigaille nel I atto (Abigaille che, peraltro, entra senza essersi – come logica vorrebbe e storia impone – abbigliata all’ebrea); illogiche – checché ne giustifichi il regista nel programma di sala – e malfatte le proiezioni sui due bastioni delle rovine. Insomma: regia gremita di inesattezze e approssimazioni. Di qualche effetto solo poche scene: la laicizzazione della punizione divina di Nabucco con Abigaille che lo colpisce con l’impugnatura della spada, in combutta col Gran Sacerdote per il colpo di stato; il corale del «Va pensiero, sull’ale dorate», dove gli ebrei si attaccano all’inferriata, con delle luci sparate, creando un effetto autenticamente angosciante; o il corale inneggiante a Jeovha con una luce alle spalle degli oranti e del fumo ascendente al cielo.

Non certo complessivamente migliore è la parte musicale, soprattutto per la direzione astenica, eccessivamente manieristica in non pochi passaggi, tesa a ricercare qualcosa che strumentalmente non c’è – ed è, chiaramente, nell’insieme ritmico, nella pulsazione del passo. John Fiore non rende giustizia al buon momento di forma degli orchestrali del Teatro dell’Opera (per quanto si possa giudicare con un’acustica come quella a Caracalla) e impone un’agogica quasi scolastica, benché ammantata di qualche effetto, risvegliantesi solo in pochi, pochissimi momenti: di tanto in tanto nei concertati, in qualche cabaletta, tutto qui. Almeno ha il pregio di non coprire le voci e lasciarle abbastanza cantare. Ma per chi – come il sottoscritto – ha nella mente il Nabucco di Riccardo Muti del 2011 e la ripresa del 2013 (con Salsi, anche in quell’occasione, nel ruolo del titolo) non può che uscire assai insoddisfatto dalla riproposizione dei più vieti tradizionalismi che hanno infestato la partitura: acuti interpolati, assenza della ripetizione delle cabalette ecc.

Il cast vocale non è omogeneo, del resto, per talento e resa scenica. Spicca incontrastato, über alles, il Nabucco di Luca Salsi, che ci dimostra ancora una volta di che pasta è fatto: voce autenticamente, caldamente baritonale, duttile e nerboruta al contempo; fraseggio presto e cangiante drammaticamente; perfetto controllo del fiato. Salsi è naturalmente dotato di un talento cristallino e di una maturità tale da farci godere un magnifico Nabucco, fin dal suo terribile ingresso, quasi novello Maometto II, in un primo atto dal sapore molto rossiniano (e, a mio avviso, molto debitore di quel rivoluzionario capolavoro), quando nel finale attacca «Tremin gl’insani del mio furore! (come fa risuonare le vibranti!) e «Mio furor, non più costretto». Tremendo e umano nel recitativo «Chi mi toglie il regio scettro?» (ancora memore del rossiniano Assur), fa emergere la profonda umanità del personaggio nel duetto con Abigaille (III) e soprattutto nella celebre aria «Dio di Giuda!... l’ara e il tempio», come pure nel finale IV.

L’unica interprete che può stargli accanto è Alisa Kolosova (che i romani ricorderanno per il buon Calbo del 2014: leggi la recensione) che dipinge una Fenena convincente e vocalmente centrata: peccato qualche tentennamento nella zona acuta nell’estatica aria del martirio (IV), «Oh, dischiuso è il firmamento!», che esegue comunque con eleganza. Sul resto del cast le lodi saranno ben poche. L’Ismaele di Antonio Corianò, che sembrava dalle prime battute ben promettere, si rivela vocalmente svuotato, pesantemente sottotono persino nel delizioso duettino/recitativo con Fenena del I atto («Fenena!!...O mia diletta!»), vera perla del primo Verdi. Vitalij Kowaljow – che ha certo la scusante di un ruolo assai arduo – entra cantando sottotono la cavatina «Sperate o figli! Iddio», con emissione indietreggiata, lievemente ingolata e periclitante negli acuti, come pure svuotata nei bassi. La situazione migliora leggermente in «Vieni, o Levita!...il santo» (II), ma i problemi lo affliggono per tutta la recita, lasciandomi non del tutto convinto delle sue autentiche doti da basso cantante. I comprimari sono tutti decorosi, ma non eccelsi: Alessio Cacciamani (Il Gran Sacerdote di Belo), Pietro Picone (Abdallo) e Simge Büyükedes (Anna).

Ho volutamente lasciato alla fine il giudizio sull’Abigaille di Csilla Boross, su cui bisognerebbe stendere una scettica, ma sana, epochè. L’interpretazione della Boross è paradigmatica proprio di come non si dovrebbe cantare il ruolo. Fin dalla sua entrata ci fa ascoltare bassi totalmente decentrati, ai limiti di un’intonazione accettabile, calcati all’inverosimile con conseguente ingolamento, acuti sfibrati, solo esteriormente stentorei, nulla più; non sfuma mai , immergendosi in un isterismo canoro e recitativo in perfetta linea con tanta interpretazione deteriore (ma purtroppo tradizionale) della parte. Raggiunge il peggio della serata nel terzetto del I atto «Prode guerrier! D’amore», nella sua aria del II (con una cabaletta tremenda) e nel duetto con Nabucco. Incredibilmente, pare riprendersi nel finale IV, nell’arioso del suicidio («Su me…morente…esanime»), salvo poi sovraccaricare inutilmente anche questa pagina.

Accettabile la performance del coro, che ci fa godere un buon «Va pensiero, sull’ale dorate».

Persino il pubblico estivo e leggero delle calde serate di Caracalla s’accorge di molte manchevolezze nello spettacolo e qualche dissenso si percepisce anche negli applausi.

foto Yasuko Kageyama


 

 

 
 
 

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