L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Baccanali di Steffani a Martina Franca

Nel gioco di baci

 di Francesco Lora

Baccanali di Agostino Stéffani è il titolo barocco proposto nel XLII Festival della Valle d’Itria: lo spettacolo è un modello di sapienza registica pur nell’esiguità del budget, e di franche risorse in una compagnia di canto non ancora corrotta dalla carriera.

MARTINA FRANCA, 29 luglio 2016 – Teatro musicale barocco nel chiostro di S. Domenico: è la formula che da alcuni anni impreziosisce il programma del Festival della Valle d’Itria, moltiplicando l’offerta artistica e le sedi di spettacolo, mentre l’opera dell’Età dei Lumi e del Romanticismo tiene il più vasto spazio del cortile del Palazzo Ducale. Cavallo che vince non si cambia; così, se grande successo era arriso nel 2014 all’allestimento della Lotta d’Ercole con Acheloo, quest’anno è stato restituito all’ascolto, per la prima volta ai giorni nostri, un altro divertimento drammatico di Agostino Stéffani: Baccanali, anch’esso composto per la corte ducale di Hannover sul finire del Seicento, testimone di come stili e forme musicali all’italiana (la sorgività melodica nelle arie col da capo) e alla francese (i divertissements ove si sposano danza e canto), speziati alla tedesca (la maniacale cura posta nella varietà timbrica e nella densità armonica dello strumentale), dessero risultati di ordinaria ed eclettica eccellenza nelle antiche dominanti degli Stati imperiali. Soggetto non mitologico ma pastorale, con la connessa semplicità di schermaglie amorose tra divinità della natura e abitanti dei pascoli: il tutto presieduto da Bacco, nel quale si specchia la provvidenza del principe elettore. Quanto al Festival, l’ennesima conferma di come la modestia del budget sappia (sappia) convertirsi in esiti sopraffini: quattro recite da 15 al 29 luglio.

Regìa di Cecilia Ligorio, scene di Alessia Colosso, costumi di Manuel Pedretti, disegno luci di Marco Giusti e coreografie di Daisy Ransom Phillips. L’allestimento scenico si integra col già scenografico chiostro, ne sfrutta gli archi a sesto acuto come fondale, consiste in un lungo nastro praticabile sopraelevato, che garantisce la visibilità e scende abbracciando l’orchestra. Lo spazio da tenere a bada con gli occhi è limitato: ma il lavoro con gli attori è tanto mobile e accurato, l’integrazione tra cantanti e danzatori è tanto sollecita, le sortite e le entrate sono studiate con tale imprevedibilità, che più e più volte occorrerebbe assistere allo spettacolo per esserne meno sorpresi e inebriati. Ciò non sarebbe possibile senza una compagnia di giovanissimi disinibiti nella loro sciolta corporeità: l’erotismo impazza, senza perdere un polline d’eleganza, anche nel gioco di baci di massa che confonde per scherzo il sesso del personaggio con quello del registro vocale, quello del cantante e quello del suo orientamento. Se ne esce con un ampio sorriso: in radiosa controtendenza con le vagues teatrali del presente, questo spettacolo è tutto fondato sulla ricerca del bello e del chiaro.

Alla testa dell’ensemble Cremona Antiqua – strumenti originali, dieci leggii e undici con lui – il concertatore e clavicembalista Antonio Greco, tra diversi esiti non sempre adamantini negli ultimi anni, fissa la sua miglior apparizione al festival itriano: egli reca la consueta attenzione al cantante e alla drammaturgia, ma la attua qui in un più attento e ossequioso rispetto del testo scritto, cavandone da esso i sottintesi anziché applicandovi a forza un’esegesi troppo soggettiva; spiace solamente, a fronte di musiche per non più di un’ora e mezza, la lista di tagli apportati qui e là alla partitura.

Premessa al resoconto sui cantanti: una carriera poggia su mille doti e vizi, non sempre di natura artistica, e solo talvolta premia i migliori nell’agone del mestiere, della vita e della critica. La giovanissima età di ogni elemento della compagnia consente l’istantanea, prima dell’insulto del tempo e dei compromessi. Si rimane dunque conquistati dalla Driade di Barbara Massaro, tutta timidezza, pudore e innocenza: la sua linea di canto è così naturale, il suo timbro è così omogeneo, la sua pronuncia è così netta da far dimenticare che alla spalle vi sia un lavoro tecnico, un mezzo attraverso il quale giungere all’immediatezza finale. Evidenza un poco minore hanno gli altri soprani Vittoria Magnarello come Celia e Paola Leoci come Clori: ma anch’esse sembrano la gioia stessa del fare musica, e tanto più quando intrecciano le voci nel contrappunto dei duetti.

Da non perdere di vista, ancora una volta, il controtenore Riccardo Angelo Strano: la sua solida tecnica di scuola italiana, che privilegia sui colleghi educati nel contesto germanico o britannico, gli procura ricchezza di armonici, rotondità d’emissione e un’estensione che mantiene la continuità di timbro dalle note più acute al registro di petto; gli competono dunque con ogni merito i panni protagonistici di Bacco cumulati con quelli di Tirsi. Rimarchevole è a sua volta la maturità ieratica di mezzi vantata, a nemmeno trent’anni, dal basso Nicolò Donini come Atlante: le spalle del colossale portatore del mondo sembrano stargli tutt’altro che larghe. Ben assortito quanto rimane, a partire dall’Aminta di Elena Caccamo e dal Fileno di Chiara Manese. Più spinoso il discorso sull’unico interprete di madrelingua non italiana: il tenore Yasushi Watanabe, nella parte in origine sopranile di Ergasto, predispone inflessioni millimetriche per ogni nota intonata o fonema enunciato; onore al merito: ma tanto calligrafismo, caro al mercato musicale d’oltralpe, tradisce il primato della naturalezza che proprio questi Baccanali martinesi hanno con forza riaffermato.


 

 

 
 
 

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