L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

the turn of the screw alla scala

Psicopatologia della vita quotidiana

 di Pietro Gandetto

In scena alla Scala una nuova produzione di The Turn of the Screw di Benjamin Britten per la prima volta in lingua originale. La pur raffinata regia di Kasper Holten non convince fino in fondo.  Compagnia di canto pressoché uniforme per qualità e spunti interpretativi.

Milano, 14 settembre 2016 - Probabilmente una delle opere più ambigue mai scritte per il teatro, in The Turn of the Screw nulla è quasi mai come sembra. Gli interrogativi di cui è zeppo il libretto si raddoppiano sul palco e nella mente dello spettatore restando privi di risposta, in un incessante gioco di allusioni, richiami, allucinazioni. E, anche in sede di commento critico, le allusioni e i doppi sensi impongono una riflessione più accurata, ché di primo acchito non è facile esprimersi su un’opera tale.

In primo luogo, il tema cardine della fragilità psicologiche dell’Istitutrice viene affrescato da Britten enfatizzando non tanto sulle attenzioni sessuali tra Quint e il bambino Miles, quanto la più generica psicosi della donna. Nonostante le innumerevoli letture (non tanto musicali, quanto musicologiche) che sottolineano il tema dei presunti abusi sessuali, gli stessi non sembrano essere il perno contenutistico prediletto da Britten, né tantomeno da Henry James.  È vero che nel libretto di Myfanwy Piper, secondo l’Istitutrice, “in questa casa è stato fatto del male e ancora se ne sente l’odore. Quest’uomo impudente, corrotto, depravato...”, ma queste sono, appunto, le parole di una donna malata, sulle cui nevrosi si impernia l’intera vicenda.  Tutto quello che si consuma nell’opera è in frutto della mente della protagonista e casomai del rapporto disfunzionale tra lei e il tutore, come è dato sapere sin dalle prime battute (“non devo scrivere al tutore, qualsiasi cosa accada sono io che devo decidere. Ho detto che l’avrei fatto per lui e lo farò”). L’Istitutrice è sola, non ha che il suo coraggio e una governante.

Una lettura di questo tipo, incentrata sul senso di inadeguatezza dell’Istitutrice trova altresì fondamento ove si consideri il milieu sociale da cui proviene la protagonista, che nel racconto di James è figlia di un curato di campagna. Una donna dalla mentalità ristretta, schiacciata dal peso dell’educazione puritana impartita nelle bigotte province dell’Inghilterra vittoriana, che si ritrova a gestire emozioni e istinti umani (l’infatuazione per il tutore), pur sentendosi totalente inadeguata.

Sin dalla Scena I, l’Istitutrice è una donna piena di complessi, paure e manie di controllo. Più che avvinta da pulsioni sessuali represse, e da indicibili istinti carnali nei confronti dei bambini (poco convincente, al riguardo, il parallelismo con la presunta castrazione emotiva di Britten di cui si legge spesso), la protagonista sembra una preposta insicura, schiacciata dal peso del giudizio.  Le sue responsabilità, aspettative e ossessioni vengono sbattute in primo piano e finiscono per strabordare nei personaggi di Quint e Miss Jessel che, in chiave psicanalitica, potrebbero essere il residuato dei genitori giudicanti dell’Istitutrice e, casomai, dello stesso Britten. Allo stesso modo Miles e Flora potrebbero rappresentare la parte puerile e più ingenua dello stesso autore, oppressa dal peso di genitori e fratelli invalidanti, come la sorella di Benjamin, Alice, che da adulta soffrì di gravi problemi mentali e anche di allucinazioni, prima di morire a soli quarantatré anni. 

Così inquadrato il soggetto, si comprende la chiave di letturadel danese (e direttore artistico del ROH Covent Garden) Kasper Holten e di Gary Kahn, i quali spostano l’accento sulla fragilità e le turbe psicologiche della protagonista, e costruiscono una regia di livello, pur senza caratterizzare l’allestimento con spunti degni di particolare nota.

La scena unica di Steffen Aarfing si compone a sinistra di un piano superiore, simbolo della parte conscia dell’Istitutrice, arredato da un salotto con un pianoforte e un enorme tendone écru.  Tramite una scarna sciala a chiocciola (che si attorciglia come una vite), si accede a un piano inferiore, una sorta di cripta simile a quella dove muoiono Aida e Radamès, sotto cui scorre il magmatico inconscio della donna.  Qui si sviluppano e prendono forma i lamenti di Miss Jessel, qui la piccola Flora è attratta dal gioco ipnotico dal fantasma. Sul lato destro, le stanze da letto, una sull’altra, come piccole celle, ben rendono il clima di claustrofobica costrizione che pervade l’animo della protagonista. La quinta scorre sull’elegante dimora di Bly, aprendo e chiudendo sul personaggio come una macchina da presa, a sottolineare il clima asfittico di chiusura psicologica.

L’effetto che se ne trae è sicuramente originale e corente con le intenzioni dell’autore, ma l’ipercontrollo che caratterizza il nocciolo concettuale dello spettacolo non è purtroppo coinvolgente. Tutto è raffinato e ben incastrato in un perfetto equilibrio teso a rappresentare le turbe di questa donna iperprotettiva. Ma la rappresentazione di questa autocastrazione emotiva immobilizza il pubblico in una palude sensoriale e più che coinvolto nel dramma del personaggio, lo spettatore lo vede dall’esterno con una certa indifferenza.

La direzione di Christoph Eschenbach rende con una buona varietà le più minute inflessioni e alterazioni emozionali dei personaggi, che la sensibilità compositiva di Britten affida non solo alle linee vocali, ma anche e soprattutto a quelle strumentali. I surreali effetti sonori con cui l’autore esprime il paranormale vengono resi con un buon dialogo tra la celesta, l’arpa, il corno inglese e in generale dei fiati.  Anche il pianoforte è ben modulato nel prologo e più oltre in passaggi virtuosistici che denotano il composito gusto musicale dell’autore.

Miah Persson è efficace nella resa dell’Istitutrice.  L’espressività vocale guida e dispiega gli sfoghi isterici e l’estrema fragilità del personaggio, senza mai rinunciare a un certo lirismo e a una certa eleganza del porgere, che va di pari passo con la grazia scenica del soprano.

Sotto il profilo strettamente vocale, il Quint di Ian Bostridge è parso aspro e in difficoltà negli acuti, ma il risultato è comunque funzionale alla resa del lato spettrale del personaggio. Scenicamente evanescente e ipnotico, ma privo di spunti realmente originali.

La Miss Jessen di Allison Cock ha più della strega che del fantasma, ma è suadente, allusiva e vocalmente senza nei.

Grande caratterizzazione per la governante Mrs Grose del mezzosoprano Jennifer Johnston, anche se ll’imponente vocalità avrebbe dovuto essere maggiormente modulata soprattutto in relazione alla più sobria isteria dell’Istitutrice di Miah Persson.

I bambini Miles e Flora erano Sebastian Exall e Louise Miseley. Musicalmente precisi, anche se meglio lei di lui.

Il consenso del pubblico è stato molto caloroso, nonostante il teatro purtroppo semivuoto.  In conclusione uno spettacolo di livello, ma che lascia un indefinito senso d’insoddisfazione.  Forse, però, era proprio questo che voleva Britten.

foto Brescia Amisano


 

 

 
 
 

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