L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Le Cinesi di Manuel Garcia

L'opera allo specchio

 di Roberta Pedrotti

Prima rappresentazione italiana delle Cinesi di Manuel Garcia, lavoro squisito del grande tenore, compositore e didatta su libretto del geniale Metastasio. Un cast di giovani interpreta l'esotico rispecchiamento culturale e metateatrale.

FIRENZE, 15 ottobre 2016 - Inserire nell’ottimo cartellone del Festival Belcanto dell’Opera di Firenze Le cinesi di Manuel Garcia è una scelta vincente sotto ogni punto di vista.

Opera da camera di soli quattro personaggi, un'oretta di durata, esigenze sceniche minime e accompagnata dal solo pianoforte, Le cinesi fu concepita dallo stesso autore come saggio per i suoi allievi, e si presta dunque a meraviglia a essere affidata a giovani come quelli dell’Accademia del Maggio, che si trovano a dover cantare parti non necessariamente semplici, ma comunque concepite da un grande didatta e artista a sua volta, quindi particolarmente amico delle voci. Il libretto, poi, è del Metastasio, e questa è già una garanzia di qualità e di una palestra retorica sopraffina, tanto più che l’esilissima vicenda impone ai personaggi di misurarsi nei diversi generi dell’opera occidentale: tragedia, pastorale, commedia.

Per il pubblico la buona disposizione a seguire i primi passi in palcoscenico di giovani artisti si unisce all’occasione preziosissima di ascoltare dal vivo un’opera del padre di Maria Malibran, Pauline Viardot e Manuel Garcia jr, meno fortunato nel canto, quest'ultimo, ma immortale come teorico. Il catalogo operistico di Manuel sr è, in realtà, importante, e conta anche una Semiramide (1828) e un Califfo di Bagdad (1813) il cui soggetto è praticamente sovrapponibile a quello del Barbiere di Siviglia rossiniano che lo stesso avrebbe tenuto a battesimo, quale primo Almaviva, tre anni dopo.

La sua musica è – anche in questo contesto essenziale, misurato per far ben figurare gli allievi senza esporli a rischi – assai piacevole, sostenuta da un solido mestiere e da una vena schietta. Si premura di differenziare stili e livelli narrativi costruendo l’ouverture (e in buona misura anche i numeri schiettamente cinesi) con una profusione di dettagli esoticheggianti, prime fra tutti quelle acciaccature che rievocano sistri, cappelli cinesi (appunto) e tutti i tintinnii degli strumenti che caratterizzano la musica occidentale “all’orientale”: pianisticamente, il Rondò alla turca dalla Sonata K331 di Mozart docet, ma le marce dei giannizzeri da Die Entführung aus dem Serail o la sinfonia dell’Italiana in Algeri son pure modelli chiarissimi. Michele d’Elia, che traghetta a Firenze in qualità di concertatore al piano questa produzione proveniente dal festival di Wildbad, è una guida sicura, che garantisce buon ritmo e precisione, con qualche sottile ammiccamento nei recitativi, come quando fa capolino Turandot nel nominare “i manderini” - allorché, invece, sembra di udire un’eco dell’omologo rossiniano “Ombra del caro sposo” prima della scena tragica di Andromaca ci si chiede se sia un’allusione di D’Elia, di Garcia (ma la scarsissima popolarità di Ermione all’epoca fa dubitare della citazione), o una semplice suggestione volatile. Certo è che la musica e il testo sono tutti da godere, benché la regia di Jochen Schönleber, sovrintendente e direttore artistico del benemerito festival tedesco, non renda piena giustizia a un testo, in realtà, di notevolissimo potenziale. Basti pensare che si tratta di un’opera occidentale che immagina un gruppo di orientali che immaginano l’opera occidentale: un gioco di specchi vertiginoso! A questo si aggiunge l’esotismo al servizio della satira sui costumi, con il confronto fra le ragazze cinesi relegate in un gineceo dove è loro interdetta ogni sorta di frequentazione maschile, la visione emancipata delle coetanee europee, la stravaganza del curioso viaggiatore Silango, ospite clandestino delle ragazze. Schönleber, però, preferisce eludere il più possibile l'ironico straniamento culturale (ecco solo Lisinga, la più seria del gruppo, che durante la sinfonia prova a indossare un costume tradizionale e offrire un té) puntando, viceversa, su gag dall’umorismo piuttosto sempliciotto. Abbiamo un tenore (Patrick Kabongo Mubenga) proveniente dal Congo? Lo si abbiglia con una parrucca biondissima in stile Raffaella Carrà. Si rappresenta il tormento di Andromaca, lacerata fra l’amore per il figlio Astianatte, la cui vita è minacciata, e la fedeltà alla memoria di Ettore, insidiata proprio dall’erede del suo assassino? Si fa apparire lo stesso tenore in panni buffissimi di bebé, mentre l’amica Sivene rappresenta un Pirro più simile alla statua della Libertà. L’ironia nel mostrare l’allestimento casalingo della grande opera seria italiana da parte di tre ignare cinesine può essere ben accetta, ma con altra arguzia, ché si perde così un’importante caratteristica dell’opera – la contrapposizione fra generi differenti – amalgamando tutto in un’unica commediuola molto meno intrigante di quanto il buon Metastasio avesse profilato. A dire la raffinatezza suprema del testo basterebbe osservare i nomi dei personaggi, soprattutto Tangìa, il carattere più brillante e impegnata nel rappresentare la commedia, che rievoca Talia, musa, appunto, della commedia; ma anche Lisinga, la seria, è omonima per lo più di principesse d’opera seria, mentre Sivene ha assonanza con silva, bosco, e infatti si dedica al genere pastorale.

Oltre al citato Kabongo Mubenga quale Silango, sulla scena agiscono il soprano Francesca Longari (Lisinga, di lui sorella) e i mezzosoprani Giada Frasconi (Sivene) e Ana Victoria Pitts (Tangìa): sono tutti allievi dell’Accademia del Maggio, intensamente impegnati in spettacoli loro dedicati o, anche, nelle parti di fianco nelle principali produzioni fiorentine. La prova è in crescendo per tutti, più timidi all’inizio, più a fuoco nel prosieguo; si tratta di studenti e qualche prudenza si può ben comprendere: il tenore potrà acquisire maggior scioltezza musicale e sicurezza nella gestione delle tessiture più acute, la vocalità del soprano, ancora un po’ acerba, potrà maturare e farsi più rotonda, i mezzosoprani potranno rifinire sempre più l’emissione. Si sa che l’artista non finisce mai di studiare e quindi rivolgiamo a tutti un applauso caloroso e un sentito in bocca al lupo.

Purtroppo il Teatro Goldoni, a poca distanza da Palazzo Pitti, è assai poco affollato per questa recita pomeridiana, ma ci auguriamo che l’iniziativa abbia un seguito, sia per riscoprire un repertorio troppo spesso dimenticato, sia per offrire ai giovani occasioni di misurarsi con il palcoscenico, sia per mantenere vive e attive le numerose sale fiorentine (oltre al Teatro Nuovo, ricordiamo almeno La Pergola, il Verdi, il Cocomero).

foto Simone Donati - Terra Project - Contrasto


 

 

 
 
 

Utilizziamo i cookie sul nostro sito Web. Alcuni di essi sono essenziali per il funzionamento del sito, mentre altri ci aiutano a migliorare questo sito e l'esperienza dell'utente (cookie di tracciamento). Puoi decidere tu stesso se consentire o meno i cookie. Ti preghiamo di notare che se li rifiuti, potresti non essere in grado di utilizzare tutte le funzionalità del sito.