L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Maria Jose siri, Madama Butterfly alla Scala

Il trionfo di Butterfly

di Pietro Gandetto

Dopo trentatré anni di assenza, la Scala “apre” con un Puccini trionfante nella versione originale di Madama Buttefly fischiata nel 1904. L’ottima concertazione di Chailly è meticolosamente incentrata sulla creazione del microcosmo Butterfly. Meno a fuoco la regia di Hermanis. Sulla compagnia vocale primeggia la protagonista Maria José Siri.

Milano, 7 dicembre 2016 - Con o senza Governo, the show must go on, almeno alla Scala. E così, il 7 dicembre, il Tempio della lirica ha spalancato le porte ai suoi ospiti, nel nome della migliore tradizione italiana. Meno male, perché se la politica nostrana è un gran pasticcio, almeno abbiamo il teatro più famoso del mondo, che a Sant Ambroeus ci rende orgogliosi di appartenere a questa nazione.

Quest’anno le defezioni istituzionali erano tante. Assenti per giusta causa l’ex premier Matteo Renzi oltre al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, impegnato a Roma per ovvi impegni istituzionali. Ma a sostituire i nostri capi di Stato ecco quelli stranieri, come il Re Emerito di Spagna, Juan Carlos di Borbone e i soliti volti noti che si vedono tutti gli anni, Carla Fracci e Roberto Bolle in pole position. Teste coronate o meno, l’atmosfera da 7 dicembre c’è tutta e alla fine è stato un trionfo con tredici minuti di applausi concentrati su Chailly e sulla protagonista Maria José Siri.

A rendere tutto più frizzante è il fatto che ieri non c’era la solita Buttefly, ma la versione originale che debuttò alla Scala il 17 febbraio del 1904, ottenendo - per varie ragioni - un fiasco clamoroso. Tanto fu l’insuccesso dovuto alla “perfidia milanese” (cit. Puccini) che il perfezionista Sor Giacomo decise di intervenire tagliando, aggiungendo un’aria al tenore e cambiando quà e là l’opera. Con questo make up, la successiva prima bresciana del 28 maggio 1904 ne decretò invece un indiscusso successo e, nella versione codificata a Parigi nel 1906, fu eseguita più o meno per tutto il ‘900 anche se il taglia e cuci di Puccini continuò negli anni tanto da farte di Butterfly un vero e proprio work in progress.

Chailly riporta in vita la versione originalissima del febbraio 1904. E ci pare cosa buona e giusta. Non perché una versione sia meglio dell’altra, ma perché, citando lo stesso Puccini: “la mia Butterfly (quella che la Scala fischiò, ndr) rimane qual è: l’opera più sentita e più suggestiva ch’io abbia concepito”.

Demiurgo di questo trionfo è anzitutto lo stesso Chailly che offre una direzione asciutta, novecentesca, pura e misurata. Il suono ricavato dalla compagine è dei migliori e riesce a infondere quel senso delle piccole cose” che costituisce l’emblema di Butterfly. In questa versione, come hanno già detto tutti, c’è molto più spazio allo scontro tra i due mondi, ma c’è anche molta più introspezione sul mondo di Butterfly fatto di filastrocche, motivetti giapponesi, modi di dire tradizionali, grazie alle quali il personaggio viene scontornato musicalmente con un vero e proprio lavoro di bulino. Quello di Chailly è un meccanismo musicale oliato alla perfezione, dove trovano adeguato riscatto gli elementi musicali più caratteristici voluti da Puccini, come le campane tubolari, i campanelli giapponesi, le viole d'amore, i fischi d'uccelli (tanto fischiati nel 1904), e i tam-tam. Insomma, la vera essenza del lucchese.

L’azione intrinseca di tutta l’opera è psicologica e si concentra a tal punto sulla geisha da farne il centro intero del dramma. Butterfly non ha veri antagonisti, giacché Pinkerton non è altro che un catalizzatore necessario alla realizzazione del suo disegno autodistruttore e gli altri personaggi sono meri satelliti che ruotano intorno al pianeta Butterfly, una nana bianca pronta a esplodere. La direzione di Chailly riflette tutto questo: ogni misura, ogni nota e ogni pausa sono studiati e proposti con una rifinitura di accenti e di fraseggio che consentono di ridare il giusto smalto a una partitura ormai “cristallizzata” nelle interpretazioni di repertorio.

Di contro, la regia di Alvis Hermanis, apprezzatissimo per Die Soldaten scaligero del 2015 [leggi la recensione] un po’ meno per I due Foscari del 2016 [leggi la recensione], va nella direzione opposta. Come diceva Mosco Carner, il noto biografo pucciniano, occorre tener bene a mente, la rilevanza psicanalitica nelle opere di Puccini, del tema dell’amore “come colpa tragica, da punire con la morte”. Allora quale espiazione migliore di quella della piccola geisha di Nagasaki che incassa una delusione dopo l’altra e ne è felice?

Madama Butterfly non è semplicemente un atto di condanna contro l’ottusa violenza della cosiddetta civilità occidentale e il suo infondato senso di superiorità, quanto piuttosto un’indagine di Puccini, l’ennesima e forse la meglio riuscita, negli abissi più oscuri dell’animo umano, una sorta di viaggio nel suo stesso inconscio, teso a tratteggiarne limpidamente le turbe più nascoste. Butterfly non è tanto una vittima sacrificale del truce egoismo di Pinkerton, quanto una lucida artefice del proprio destino, declinato attraverso forme di masochismo più o meno palesi.

La regia di Hermanis si limita a sfiorare l’essenza del vero dramma. Vediamo il solito Puccini dei sentimenti, un po’ sdolcinato e comunque troppo statico. La scena fissa di Hermanis e Fteita perdura per tutta l’opera. Una struttura a moduli, cinque in lunghezza e tre in altezza, che scorrono nel corso dello spettacolo anche con proiezioni video dai tratti semplicisticamente nipponici che vanno dal porto di Nagasaki ai motivi floreali della scena dei fiori (non propriamente avanguardistica). Belli i mimi dell’ingresso di Butterfly e della scena del coro a bocca chiusa, dove le geishe inscenano la metamorfosi della crisalide in farfalla secondo l’elegante coreografia di Alla Sigalova e con i bellissimi costumi di Kristine Jurjane.

Tutto molto bello da vedere, ma privo di un reale spessore drammaturgico. Non c’è introspezione, non c’è profondità e manca quel coinvolgimento emotivo tale da consentire una piena immedesimazione nel dramma. Nel secondo atto le cose migliorano soprattutto nella scena finale, dove la sacralità del rito di Butterfly emerge in tutta la sua prorompenza. Da lamento pucciniano, il "Con onor muore" diventa una vera e propria litania orientale che scandisce l’avvio del sacrificio. È grazie all’onore, infatti, – e al relativo gesto estremo – che Butterfly si riconcilia con sé stessa e riesce finalmente a espiare la sua colpa più grande, quella di aver amato un uomo americano.

Sulla compagnia vocale, va a segno la quadratura musicale e scenica di Mari José Siri. La protagonista domina la scena con una varietà d’intenti interpretativi tale da dimostrare un vero talento di attrice. Adeguata interprete sia nei momenti di passione solitaria sia in quelli di confronto con gli altri personaggi. La vocalità, calzante per il ruolo, si mostra salda, di volume non ragguardevole, ma sufficiente a reggere il peso dell’orchestra. Particolarmente riuscita la scena finale, in cui il soprano scandisce il rito giapponese dell’harakiri con una freddezza e una lucidità espressiva coinvolgenti.

Non centra il personaggio maschile, invece, il tenore Bryan Hymel. Tralasciando le lacune nella dizione, l’emissione è legnosa e manca una reale consapevolezza di fraseggio e di accenti, nonostante le chiare indicazioni del direttore. Anche scenicamente, la perfomance non convince. Pur tratteggiato da Puccini nella sua ottusa volgarità di marinaio in cerca di avventura, Pinkerton è comunque la proiezione inconscia dell’amore dell’autore per la protagonista, come dimostra la dotazione di un duetto "d’amore" tra i più belli di tutta la storia dell’opera. Il tenore ben rende la spavalderia da yankee del primo atto, ma si ferma li, e manca quel trasporto necessario per dare credibilità all’attaccamento di Butterfly e conferire il dovuto equilibrio sentimentale alla coppia.

Più interessate la parte di Sharpless e il relativo contributo di Carlos Àlvarez, che si conferma un attore a tutto tondo, in grado di sostenere i numerosi dialoghi e, soprattutto, il raffronto con Butterfly nel salotto ‘americano’. Vocalmente, il colore brunito e virile è come di consueto accompagnato da una musicalità e un fraseggio esemplari e un senso della parola scenica che trovano ben pochi eguali.

La Suzuki di Annalisa Stroppa è, se possibile, perfetta. Non c’è una frase, un accento o un’espressione del corpo che non siano sapientemente rifiniti. Il mezzosoprano bresciano conferisce il giusto valore a un ruolo spesso relegato a quello di mera assistente, in linea con l’intento di Puccini che concepisce Suzuki come unico punto di riferimento, quasi materno, nella solitudine di Butterfly.

Tra i caratteristi, Nicole Brandolino è una splendida Kate che farebbe girare la testa non solo a Pinkerton. Puntuale nelle poche battute a sua disposizione. Carlo Bosi è un riuscitissimo Goro, tenore di grazia e vera e propria anima del canto di conversazione. Un ruolo chiave, insieme al Yakusidé di Leonardo Galeazzi e allo Zio Bonzo di Abramo Rosalen, per vivificare ogni momento dell’azione e guidare la narrazione nell’atmosfera voluta dall’autore. Il coro si conferma all’altezza delle aspettative.

In conclusione uno spettacolo ben riuscito che restituisce la giusta dignità all’intenzione di Puccini, pur in assenza di una cornice registica in grado di farci sognare.

foto Brescia Amisano


 

 

 
 
 

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