L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Anima classica

di Roberta Pedrotti

Che puro ciel: the rise of classical opera

scene e arie di Gluck, Traetta, Hasse, Mozart, J. C. Bach

Bejun Mehta, controtenore

René Jacobs, direttore

Akademie für Alte Musik Berlin, RIAS Kammerchor

CD Harmonia Mundi HMC 902172, 2013

registrato nel mese di aprile 2013

Il puro ciel dei Campi Elisi è un'utopia, un ideale neoclassico che può essere vagheggiato, intravisto per un istante, ma al quale si tende inevitabilmente attraversando rovine e paesaggi inferi popolati da furie; lo si costeggia e lo si corteggia, ma appartenendo sempre alla terra e con il rischio costante e insidioso, più che osare il futuro, di guardarsi indietro. L'ascesa del dramma e del classicismo in musica è in realtà un percorso tortuoso, cui si accede da più sentieri e che sbocca in più strade dopo essersi ramificato e ricongiunto in mille rivoli. La storia e le arti vanno di pari passo, si specchiano l'una nelle altre, e mentre si consuma la parabola degli assolutismi illuminati e ribolle l'incombente stagione delle rivoluzioni muta anche il gusto per il teatro, fra exempla coturnati e nuovo teatro borghese, nell'idea di un maggior realismo patetico sia nella recitazione sia nella ricostruzione storica degli allestimenti, in una maggior attenzione all'accento declamato e al canto spianato, in una maggior mobilità delle forme e nel crepuscolo della poetica degli affetti.

È una stagione complessa, che si rifrange in mille sfumature, quella in cui il XVIII secolo si prepara a imbracciare le armi contro il XIX, oltre che una stagione spesso schematizzata in categorie fin troppo approssimative. Per questo si apprezza in modo particolare questo CD in cui, per un'ora e dieci, Bejun Mehta ci accompagna attraverso alcuni sentieri paralleli e intrecciati lungo lo sviluppo e l'ascesa dell'opera classica.

La vocalità, diciamolo subito, non è di quelle privilegiate: limitata nell'estensione e piuttosto faticosa nell'acuto, si dimostra fin troppo prudente nelle cadenze, senza inebriare per particolare mordente naturale nell'articolazione, nel virtuosismo o nella gestione dei fiati. Però l'artista è di prim'ordine, intelligentissimo, con una chiara visione intellettuale del repertorio affrontato e del progetto proposto. Il timbro, poi, ha suggestive screziature eburnee che si sposano a meraviglia con un ideale neoclassico sospeso fra Piranesi, David e Winckelmann. L'emissione è stilizzata ma naturalissima e l'eleganza raffinata del porgere è tradita solo da qualche inflessione anglosassone, che tuttavia non pregiudica l'intelligenza del senso del testo, la coscienza di una precisa riflessione storica e stilistica alla base i questa incisione.

L'espressività così raggiunta e sapientemente costruita mette decisamente in secondo piano i difetti e ci permette di apprezzare i puntualissimi accostamenti in programma. Se dell'Orfeo di Gluck si ascolta la scena dei Campi Elisi è impossibile non rimanere impressionati dall'ascolto contestuale dell'incontro fra Oreste e il coro delle Erinni nella coeva Ifigenia in Tauride di Traetta, sorella per certi versi ancor più rivoluzionaria (trattandosi di una sorta i variegata scena di follia ante litteram, eco dell'Oreste di Euripide) della scena delle Furie nell'opera di Gluck. Ma si tratta solo di uno dei molteplici esempi di koiné neoclassica in cui si muovono Gluck e Traetta come Mozart, Hasse e Johann Christian Bach, ciascuno con il suo sguardo peculiare che generalmente vede l'orchestra acquisire non una maggior complessità di scrittura, ma certo un maggior peso nel rapporto alla linea vocale, in continuità con un recitativo accompagnato sempre più energico e patetico. Ciò naturalmente con un trasporto che non segna una netta discontinuità rispetto al passato: si esita a guardare indietro forse per timore di specchiarsi, ma non esiste un netto spartiacque, come si vede, fra l'opera metastasiana e i proclami di Gluck e Calzabigi, solo un naturale percorso storico non riconducibile all'azione rivoluzionaria di un pugno di libretti e partiture, collocate invece nel ben più complesso contesto di un momento storico cruciale e di un'evoluzione del gusto, della sensibilità e della filosofia.

L'adesione totale di Mehta alla definizione, con appropriate pennellate, di questo scorcio di fine secolo è ammirevole nel progetto, seducente e intrigante nella realizzazione, cui ben si presta la linea interpretativa di René Jacobs, da sempre dedito alla resa della peculiarità di linguaggio e del rapporto del repertorio settecentesco con le proprie radici, più che con una visione teleologica o un prosciugamento delle sonorità. Anche nel bilanciamento dell'incisione si è deciso di rendere ben presente, quasi in fusione con la voce, il suono dell'Akademie für Alte Musik di Berlino, tanto che in mancanza di un buon impianto stereo non è da escludersi il rischio della sensazione di una preponderanza strumentale. La scelta è però anche in questo caso ben ponderata, il timbro e il canto neoclassici di Mehta trovano un ricercato equilibrio, fra pathos e compostezza, con l'orchestra, meno sfumata e fantasiosa nei colori e nelle dinamiche rispetto ad altre incisioni di Jacobs, ma energica, densa e ruvida, anche in una scelta coloristica ispirata più a marmorei chiaroscuri e a tragiche asprezze che a pastelli rococò o vivide tinte barocche.

Una nota di merito per i testi del libretto, con una puntuale e pregevole introduzione di Denis Morrier (purtroppo non in italiano), che non isola Gluck e Traetta e ne argomenta bene i rapporti con Hasse, Mozart e Bach, oltre che le origini dialettiche fra Italia e Francia. I testi cantati sono riportati in quattro lingue e, ottima idea, preceduti da una breve sinossi che li contestualizzi. Se in calce o nella lista delle tracce si fosse indicata anche la data di composizione e prima esecuzione di ogni opera (citata solo nel saggio di Morrier) si sarebbe potuto dire un lavoro editorialmente impeccabile.

 


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