L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Voci nel deserto

 di Roberta Pedrotti

Irrisolta e fallimentare nell'allestimento firmato registicamente da Marshall Pynkosky, la nuova produzione di Ricciardo e Zoraide al Rossini Opera Festival convince sotto il profilo musicale grazie a un ottimo cast in cui, accanto Juan Diego Florez, Pretty Yende, Sergey Romanovsky, Nicola Ulivieri, Victoria Yarovaya, si fa notare il giovanissimo e talentuoso tenore Xabier Anduaga.

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PESARO 11 agosto 2018 - 2018. Trentanove anni di Rossini Opera Festival, centocinquant'anni dalla morte di Gioachino, ma anche duecento anni dalla prima di Ricciardo e Zoraide, forse la meno amata e fortunata fra le opere napoletana del Pesarese. Effettivamente, non si può negare che il libretto di Francesco Berio di Salsa, già efficentissimo per Otello, sia parecchio problematico e che imbastisca un'avventura esotica a lieto fine non poco macchinosa, zoppicante quando non eccessivamente complicata ed ellittica nell'intreccio. Tuttavia il curioso labirinto di relazioni che ruota intorno alla splendida principessa prigioniera e contesa meriterebbe di essere finalmente riscoperto e rivalutato, magari ricordando il profitto che Euripide trasse da analoghi registri e meccanismi di commedia in tragedie come Elena e Ione, ma anche, in diversa misura, Oreste. Non diversamente, Rossini lavora con arguzia sui caratteri di un condottiero e sovrano assoluto inevitabilmente avvezzo a realizzare ogni capriccio, ma anche sincero e perfin credulone, di una regale consorte consumata da una dolorosa quanto feroce gelosia, di un innamorato e di un padre che, senza conoscersi l'un l'altro, cercano di salvare la rispettiva amata e figlia mettendosi, in realtà, i bastoni fra le ruote reciprocamente con piani non proprio ben concertati. E, al centro di tutto lei, Zoraide, che deve destreggiarsi fra affetti e continue, diverse insidie. Il linguaggio musicale è volutamente ambiguo, straniante, in bilico fra dramma e commedia fino a quel finale che sfiora la tragedia per convertirsi in poche battute in un vaudeville di conciliazione collettiva. Alle trappole, insomma, corrispondono le occasioni, per gli interpreti che vogliano mettersi in gioco con questa partitura negletta ed enigmatica, come già dimostrò, sempre a Pesaro, Luca Ronconi con uno storico spettacolo che giocava intelligentemente con tutti i cliché eroicomici dell'avventura esotica.

Non sappiamo fino a che punto ci abbia provato, ma di certo non ci riesce, invece, Marshall Pynkosky per la nuova produzione che ha inaugurato il Festival 2018. Certo, il registro dell'ironia, il sottile sarcasmo, l'ambiguità straniante non son facili da gestire con maestria, ma non per questo è lecito scadere nel ridicolo di troppe immagini che paiono desunte da una cattiva tradizione comica anestetizzata e maldigerita, fra danze di sbandieratori, inchini alla maniera di Susanne e Marcelline d'altri tempi, goffo zompettare di onnipresenti, invadenti signorini e signorine in costumi pastello che fatichiamo a definire danzatori impegnati in coreografie (le quali pur porterebbero la firma di Jeannette Lajeunesse Zingg). La gestione della recitazione pare consistere nello stereotipo di una lezione d'arte scenica limitata allo scambio regolare di posizioni sul palco, in un raggrupparsi, acquattarsi e rialzarsi più o meno a tempo di musica, fra amichevoli pacche di saluto, bandane rivelatrici (evidentemente il fazzoletto da pirata rende Ricciardo irriconoscibile alla stessa Zoraide...), mossettine e balletti, balletti, balletti, come se fossimo in un film d'avventura esotico-mitologico a basso costo di qualche decennio fa. Tutto senza che traspaia un'idea interpretativa coerente e sviluppata, senza che i caratteri siano tratteggiati in qualsivoglia maniera, che ci rimanga almeno un conforto estetico nell'accozzaglia di costumi che paiono pescati e rimescolati dai set di Via col vento, La principessa Sissi, Sandokan, Sindbad il marinaio, Zorro, The young Pope (Michael Gianfrancesco), su scene che paiono passivamente ricalcate da bozzetti d'epoca (Gerard Gauci) e con luci inerti di Michelle Ramsay. Insomma, una messa in scena che si dimentica volentieri e che si guadagna le sue brave contestazioni alle uscite finali, che invece premiano giustamente una resa musicale meritevole di maggior smalto teatrale.

Non immaginiamo facile per Pretty Yende, infatti, dar credibilità alla sua Zoraide alternando senza soluzione di continuità tragico contegno e piroette da Vispa Teresa, ma il soprano sudafricano ha ben saputo vincere la sua battaglia, forte di un'innata eleganza nel porgere e di una vocalità in cui coesistono una certa qual ombreggiata sensualità e una delicatezza vitrea nella gestione dell'acuto. Una piccola amnesia nel recitativo che precede la Gran Scena del secondo atto ha forse determinato una certa tensione nella resa della stessa, ma non possiamo non estendere un plauso convinto alla raffinata, sensibile musicalità e alla partecipazione emotiva dimostrate nel corso di tutta la serata. Parimenti, la sua rivale Zomira, Victoria Yarovaya, dimostra autorità e stile anche nell'impegno tutt'altro che trascurabile della sua aria “Più non sente quest'alma dolente”, tributo magari poco appariscente, ma complesso e sofisticato, al talento della prima interprete Rosamunda Pisaroni: i trilli sono adeguatamente risolti, e così il fraseggio anche in una tessitura e in un'articolazione per nulla agevoli e che impongono, talora, un incedere un po' prudente.

Un pizzico di commozione tocca, poi, nel ritrovare in quest'opera Juan Diego Florez, che debutta come Ricciardo dopo che la sua carriera aveva preso il via proprio da una scrittura nello stesso titolo (quale Ernesto) convertitasi poi nello storico, improvviso debutto in Matilde di Shabran (Rof 1996). Ora l'artista peruviano, passato al ruolo di primo tenore, tiene a battesimo un giovanotto che ha esattamente gli stessi 23 anni del suo stesso lancio folgorante: il secondo tenore Ernesto è Xabier Anduaga e si può scommettere in un roseo futuro per questo ragazzo dalla voce squillante, tornita, teatralissima, duttile e dalla presenza disinvolta perfino nei panni (invero incomprensibili e non di rado involontariamente comici) di un alto prelato goliardico compagno d'avventure di Ricciardo.

Quanto a Florez, non delude, canta con gusto, valorizza il coté lirico rispetto a quello schiettamente virtuosistico, confermando la maturazione del fraseggio sia nella ricerca di accenti più decisi ed eroici, sia di un canto più insinuante ed elegiaco. La scrittura di Ricciardo non s'illumina tanto di pagine esuberanti, spettacolari, fitte, quanto delle arcate amorose della prima sezione della cavatina, o dei cantabili dei duetti con Agorante e con Zoraide: tutte pagine che favoriscono il temperamento e le caratteristiche attuali di Florez e che il tenore cesella a dovere.

Un po' più sottotono rispetto alle aspettative è Sergey Romanovsky che rende, sì, giustizia all'aspra parte di Agorante, ma senza elettrizzare con gli estremi d'estensione e virtuosismo che ci si aspetterebbe da un personaggio creato da Andrea Nozzari, né lo aiuta il bozzetto monodimensionale che Pynkosky suggerisce del re nubiano. Meglio può fare Nicola Ulivieri, costretto a sbracciarsi di continuo e senza costrutto di fronte a tre gruppi di coristi per tutta la sua scena di sortita, ma ben autorevole nello scandire la breve parte di Ircano.

Se Anduaga è la vera rivelazione e si erge, da poco più che comprimario, a vero deuteragonista, non demeritano affatto gli altri giovani interpreti dei ruoli minori: per quanto la regia le voglia insopportabili pettegole, Sofia Mchedlishvili e Martiniana Antonie valorizzano al meglio le parti di Fatima ed Elmira, nondimeno Ruzil Gatin si fa notare come incisivo Zamorre.

Di fronte a un cast ben assortito e all'altezza della situazione, Giacomo Sagripanti ha buon gioco nel sostenere le voci, soppesare gli equilibri, valorizzare gli artisti sulla scena. Fa di più, con misura, ché il dialogo fra la buca e la banda dietro le quinte (dopo il precedente del Pirro di Paisiello, un'intuizione rossiniana che fece epoca) è ben reso, grazie anche all'ottima qualità dell'orchestra Rai; la varietà espressiva del dramma è ben assecondata da un fluido sviluppo dinamico, sempre adeguato e sobrio nei colori, come nel bel coro introduttivo alla Gran Scena di Zoraide “Qual giorno ahimé, d'orror” o nella scena del carcere. Merito, questo, anche dell'efficace complesso del teatro Ventidio Basso preparato da Giovanni Farina. Peccato davvero che l'assenza di una vera dialettica fra musica e teatro, di una drammaturgia condivisa e reciprocamente rafforzata fra regista, concertatore e interpreti renda anche all'ascolto zoppa la resa di questo Ricciardo e Zoraide.

Alla fine il pubblico esulta per tutti i musicisti, mugugna pressoché all'unanimità nei confronti di Pynkovsky e dei suoi collaboratori. Non possiamo non concordare e non attendere, ancora, l'occasione propizia per veder veramente rinascere Ricciardo e Zoraide come, qualche anno fa, era rinata a Pesaro e si era finalmente rivelata un'altra opera affascinante e teatralmente problematica, Sigismondo.

foto Amati Bacciardi


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