L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Elina Garanca e Christian Thielemann

L’oro di Dresda a Salisburgo

 di Francesco Lora

Nei concerti sinfonici al Festival di Pasqua di Salisburgo: Bach, Mozart, Schubert, Berlioz, Mendelssohn, Schumann, Brahms, Mahler e Puccini. Inscindibile intesa tra Christian Thielemann e la Staatskapelle, attorniata da ospiti come Elīna Garanča, le sorelle Labèque e Sol Gabetta.

SALISBURGO, 29 marzo - 1° aprile 2018 – Già riferito in queste pagine sulla Tosca che ha inaugurato e concluso il Festival di Pasqua [leggi la recensione], rimane da dire sui concerti che a Salisburgo hanno impegnato tutti i giorni della settimana santa, diramandosi con perfetta simmetria dal giovedì alla domenica delle palme e alla domenica di risurrezione. Padrona di casa del festival e protagonista di tutti i programmi, ecco la Staatskapelle di Dresda, che al solito ha lì ricapitolato i suoi migliori ultimi cimenti. Quanto eseguito il 29 marzo nel Grosses Festspielhaus, per esempio, lo era già stato, tal quale, il 13 febbraio nel Semperoper della capitale sàssone. Ma nel cuore del Festival di Pasqua, il giovedì santo, ha trovato una più perfetta collocazione, trattandosi della Johannes-Passion di Johann Sebastian Bach. Rara la versione adottata: non quella corrente, la prima, del 1724, bensì la seconda, messa a punto l’anno successivo sostituendo cori e arie, non preferita dal vaglio della tradizione né preferibile nella coerenza interna, ma di singolare interesse per l’irruzione di stile lieve, elegante e capriccioso; ne fanno fede in particolare le nuove arie per il tenore solista, di insolito virtuosismo, nonché il coro d’esordio (lo stesso poi definitivamente ricollocato al termine della parte prima nella Matthäus-Passion) e quello di congedo (un lungo brano concertato basato sull’Agnus Dei luterano, di carattere opposto al nudo, conciso e raggiante corale d’origine).

Da lungo tempo sostenitore della pari dignità della versione 1725 – ne ha anche firmato l’incisione discografica di riferimento – Philippe Herreweghe non si è separato dallo specializzato comparto corale del suo fido e filologico Collegium Vocale, ma nel contempo ha assunto la direzione di un’orchestra con strumenti di fattura moderna anziché settecentesca. In assonanza con la partitura revisionata, la sua è una lettura di aristocratica sottigliezza, foriera più d’ammirazione che di commozione. Il coro di Gand è ormai un’estensione immediata del pensiero del maestro: come si usava in tutta Europa al tempo di Bach, dalle sue sezioni prendono la parola anche i solisti, i quali erano qui il luminoso soprano Dorothee Mields, l’espressivo contraltista Damien Guillon, l’incisivo tenore Robin Tritschler e il giovanile basso Krešimir Stražanac. Dotato di naturale comunicativa senza troppi grattacapi di analisi, il tenore Maximilian Schmitt teneva la parte dell’Evangelista, affiancato da un Günther Haumer asciutto e quasi altero negli interventi di Gesù. Anche in questa digressione rispetto al favorito repertorio ottocentesco, impagabile rimane la Staatskapelle, che negli archi incordati in metallo riesce a ritrovare l’argentina leggerezza di quelli incordati in budello, e che nei legni – uguali nel nome attraverso la storia, non certo in meccanica e timbri – dà prova tale di sagacia tecnica da far ricredere l’esclusivo partigiano degli strumenti antichi.

Il canto corale è sua volta l’abituale condizione del concerto per il venerdì santo: quest’anno il 30 marzo, con un’anteprima il 27. Programma costituito da una colossale arcata unica: la Sinfonia n. 3 di Gustav Mahler, con i suoi cento minuti in sei movimenti, l’orchestra a ranghi completi, il contralto solista e il coro di voci bianche e femminili. La composizione non è al centro delle predilezioni di Christian Thielemann, e lo conferma un indizio che non sfuggirà a chi lo segue da un quarto di secolo: se il più autorevole direttore tedesco di oggi conduce sempre a memoria ogni opera amata, inconsueta e vistosa – e dunque significativa – risulta allora la partitura aperta sul leggio. Innegabile è che in Mahler egli ponga in primo piano l’occasione di virtuosismo, onde esibire la mirabolante gamma retorica, timbrica e dinamica della Staatskapelle, e che le angolature mordenti, culturali e grottesche non lo trovino mentore entusiasta. Ne deriva una lettura fatta per sbalordire e confondere, agli antipodi di quella, quasi pedagogica, data di recente da Riccardo Chailly al Teatro alla Scala [leggi la recensione]; né sarà un caso che l’atteso assolo del corno da postiglione scorra via con tanta esattezza tecnica quanta freddezza evocativa. Tra i fanciulli del coro locale e le signore del Wiener Singverein, preparatissimi, ecco il mezzosoprano Elīna Garanča a ribadire la priorità estetica: velluto della modulazione, calligrafia del porgere, avvenenza della figura.

Thielemann si tenga stretto la Staatskapelle, e la Staatskapelle si tenga stretto Thielemann. Nello scinderli, balza all’orecchio il venir meno di una condizione privilegiata per ambo le parti. Ne è prova, malgré soi, l’unico concerto salisburghese passato – 25 marzo e 1° aprile – alla differente bacchetta di Andrés Orozco-Estrada. Programma teso dal Preludio sinfonico di un giovane Giacomo Puccini alla Symphonie fantastique di Hector Berlioz: ma se nel primo la Staatskapelle non si lasciava persuadere alle semplici mollezze italiane, né dispensava senza preciso comando lo stesso strapotere artistico già ostentato in Tosca, nella seconda era ancor più grave colpa del direttore se il fantasmagorico spettro timbrico berlioziano pareva sempre immobile, e se le frasi venivano a mancare una dopo l’altra di trascinante direzione agogica e fraseggio debitamente imprevedibile. Sia chiaro: a intascare il trionfo della serata è stato il duo pianistico di Katia e Marielle Labèque, impegnato nel Concerto per due pianoforti KV 365 di Wolfgang Amadé Mozart. Meraviglia della vista, che mai riesce a distinguere le due affiatate sorelle somiglianti come gocce d’acqua; e meraviglia dell’udito, che ascolta una sola anima musicale munita di quattro mani, la quale conversa da una tastiera all’altra con la stessa spigliata brillantezza di risorse. Perentoria riconferma nel bis concesso a furor di popolo: l’arpeggiante e martellante quarto dei Four Movements for Two Pianos di Philip Glass.

Dopo la Garanča e le Labèque, è ancora una signora a lasciare il segno sull’ultimo appuntamento sinfonico qui in oggetto: Sol Gabetta, venuta a ritirare il premio assegnatole da Eliette von Karajan in memoria del sommo, e festosamente accolta il 26 e il 31 marzo in un programma con la Staatskapelle e Thielemann. Della violoncellista vanno lodate la semplicità, la franchezza e la generosità di slancio, modi e tecnica, palesate in maniera enciclopedica lungo il Concerto op. 129 di Robert Schumann. Ma altre prove di ispirazione, affabilità e virtuosismo si riscuotono nell’alato bis solistico, El cant dels ocells di Pau Casals; o nella democratica partecipazione, il 1° aprile al Mozarteum, all’esecuzione del Quintetto D 956 di Franz Schubert, distinguendosi la nostra, con lo spirito del pizzicato, tra quattro membri insigni della Staatskapelle. Ritorno a quest’ultima e a Thielemann: prima di Schumann, un’Ouverture Die Hebriden, di Felix Mendelssohn, nella quale si è raccolta la più smagliante tradizione germanica; dopo Schumann, una Sinfonia n. 2 di Brahms non meno che miracolosa, con un respiro proprio individuato per ciascuna frase, e l’illusione di spontaneità espositiva filigranato attraverso l’oro di quella che, al momento dell’applauso, non si saprebbe negare essere la più splendida orchestra al mondo. Convinti o scettici, il Festival di Salisburgo è prova da fare; e il programma del 2019, superbo, è già stato annunciato.

foto OSF Creutziger


 

 

 
 
 

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