Mahler tradito dai sorrisi
di Francesco Lora
All’inaugurazione effettiva del Settembre dell’Accademia svetta la violinista ospite, Lisa Batiashvili, mentre la Staatskapelle di Dresda non trova fruttuosa intesa col direttore Alan Gilbert.
VERONA, 6 settembre 2018 – Soprattutto quando la popolare stagione estiva è terminata, con le scene ancora accatastate fuori dall’anfiteatro romano, la Verona musicale mostra di essere non solo opera e Arena: tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno ruggisce il festival dell’antichissima Accademia Filarmonica, che nel relativo teatro presenta i capisaldi del repertorio sinfonico e ospita un distillato delle orchestre massime. Una rassegna dal nome lapidario: è il Settembre dell’Accademia. Dal 27 agosto al 22 ottobre, sembra che quest’anno si faccia sul serio ancora più del solito: in cartellone vi sono – spilluzzicando – la Staatskapelle di Dresda, la Filarmonica della Scala, la Philharmonia Orchestra, la Mahler Chamber Orchestra e l’Orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia; le bacchette di Alan Gilbert, Myung-Whun Chung, Esa-Pekka Salonen e Mikko Franck; le tastiere di Martha Argerich e Rafał Blechacz, nonché il violoncello di Sol Gabetta. La sera del 27 agosto la prima mano è toccata a un concerto fuori abbonamento, con una locandina senza divi, suddiviso tra un nuovo brano di Piergiorgio Ratti e la Sinfonia n. 9 di Beethoven. Calata d’assi, invece, il 6 settembre, con più fervido convegno di pubblico e brio inaugurale.
Le sorti del concerto stanno soprattutto nel violino della georgiana Lisa Batiashvili: una musicista che porge la frase con delicatezza femminile, nettissima intonazione e articolazione di note e figurazioni, colori vividi e soprattutto intenzione convinta e poderosa. A tali doti corrisponde una lettura d’assalto del Concerto n. 2 in Sol minore di Prokof’ev: mentre il violino solista innalza con orgoglio la propria avvincente orazione, l’orchestra tutta intera non osa opporgli nemmeno una pari quantità di suono. Il fatto è riattestato nel bis concesso subito dopo: si ascolta una “Danza dei cavalieri” da Romeo e Giulietta di Prokof’ev stesso – un cortese omaggio alla città degli amanti shakespeariani – ove la Batiashvili svetta senza argine (il bell’arrangiamento con violino solo è firmato da suo padre Tamás). Onore al merito della violinista, dunque; ma anche sorpresa per la timidezza con la quale si ripresenta in Italia la Staatskapelle di Dresda, un’orchestra che per profilo storico, tecnico e poetico potrebbe gloriarsi come prima al mondo. A frenare in essa l’inebriante involo setoso degli archi, il puntinismo vivace dei legni e lo scoppio degli ottoni, nonché la sintesi tra sezioni e persino il rigore ritmico, sarà di certo stata un’intesa non fruttuosa col direttore.
Direttore che è il sempre più lanciato Gilbert, statunitense, già stabile alla New York Philharmonic, ora allo NDR Elbphilharmonie Orchester e atteso alla Scala per Die tote Stadt di Korngold. Dopo la fiacchezza della parte dedicata a Prokof’ev, i nodi vengono viepiù al pettine in quella successiva, occupata dalla cruciale Sinfonia n. 1 di Mahler. La partitura – si sa – vanta un amplissimo respiro, un linguaggio enciclopedico e non convenzionale, e soprattutto una sterminata tradizione esecutiva; è un manifesto di retorica musicale e – attraverso di essa – una formidabile macchina onde esibire la bravura di un’orchestra e l’analisi di un concertatore. Ma l’analisi di Gilbert qui non torna a dovere: per tacere dei corni fuori campo resi inudibili da un loro sbagliato posizionamento, decade il senso d’inquietudine ed esaltazione così intrinseco al pensiero mahleriano. A sostituirlo sono i molti sorrisi all’orchestra, smarrita benché a dorso del cavallo di battaglia: il direttore non avanza richieste precise, la compagine non s’azzarda a proporre, il discorso musicale si sfalda fra i due poli. Al congedo, il bis è il Preludio all’atto III del Lohengrin di Wagner: lì la Staatskapelle sfavilla finalmente del proprio oro; ma ciò alimenta il rimpianto per l’occasione mancata.