L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

grigory sokolov

Il pellegrino della musica

 di Alberto Spano

Il grande pianista russo in recital a Imola interpreta Beethoven e Schubert.

IMOLA (BO), 24 novembre 2018 – Ogni concerto di Grigory Sokolov è un mondo a sé: il grande pianista russo, oggi sessantottenne, ci ha ormai abituato nei suoi non più rari recital ad essere immersi nella più completa oscurità, quasi a voler sottolineare la sua più totale estraneità allo show e all’apparire. Sokolov suona sempre di più (rispetto ai suoi verdi anni) ma “compare” sempre meno: da tre anni pubblica i suoi cd per la più grande etichetta discografica del mondo, la tedesca Deutsche Grammophon (dopo un silenzio discografico durato quasi un ventennio), circolano sue nuove immagini e addirittura nuovi video che lo rendono un po’ più ‘umano’ rispetto al passato, al termine dei concerti si concede ormai al rito dell’autografo e a qualche selfie coi fans… Ma nel momento del recital, mai come oggi, Grigory Sokolov appare come il musicista più solitario e introverso del mondo. Immerso nel buio, una sola lucina fioca lontana dalla sua postazione sul palco ne delinea una vaga silhouette coi capelli candidi, ma il pubblico non riesce a vederlo veramente: in questa semi oscurità egli potrebbe avere trenta come ottanta anni. Sokolov appartiene a una razza di interpreti che sembra uscita dalla penna di Gogol. Entra, fa un fugace inchino, si siede e da quel momento in poi il concerto è un fatto tutto suo con la musica e la tastiera del pianoforte. Pianoforte che egli esige nuovo e scintillante, dalla meccanica rispondente alle sue ormai celebri esigenze (un doppio scappamento velocissimo per realizzare al meglio i suoi incredibili trilli e abbellimenti e un’intonazione perfetta). Ogni suo concerto è quindi una specie di rito, col fedele accordatore pronto ai suoi scarti d’umore (a Imola c’era Fabio Angeletti), le prove indefesse, la spasmodica ricerca della perfezione. Il critico musicale Piero Rattalino ha di recente esaminato i vari periodi del pianismo ormai leggendario di Grigory Sokolov, individuando in questo suo ultimo quello forse meno originale e creativo. Il concerto di Imola del 24 novembre scorso per l'Emilia Romagna Festival, al Teatro Ebe Stignani, con quella strana acustica secca e poco gratificante, ha fatto tuttavia capire quanto sia grande e inesausta la ricerca musicale del maestro moscovita, vincitore a soli sedici anni del Concorso Tchaikovsky di Mosca.

Apriva la terza Sonata di Beethoven, in do maggiore op. 2 n. 3, sulla quale grava come un macigno la lettura di Arturo Benedetti Michelangeli, custodita in almeno sei diverse esecuzioni reperibili sul mercato, compresa quella del 1986 ripresa dal vivo in Vaticano, ricca di contrasti dinamici e piccolissime increspature, abbastanza in contrasto con le registrazioni giovanili dalla perfezione canoviana. Sokolov attacca il do maggiore e di primo acchito sembra ispirarsi all’ultimo Michelangeli: ma presto se ne discosta, anche abbastanza radicalmente, riuscendo a sintetizzare ideali di tradizione esecutiva romantica (le enormi escursioni dinamiche, fasce sonore attorno ai punti nodali, i pedali generosi e inconsueti) alla politezza e al rigore classicista. I tempi sono molto dilatati, quasi sempre esageratamente, ma la capacità di sostenerli è semplicemente sbalorditiva: dal vivo un Adagio beethoveniano di Sokolov può durare il doppio di quello di un Kempff o di un Barenboim, e a Imola il maestro russo non s’è smentito. Ma è inutile: con quello scavo nel suono e con quella spasmodica tensione sotterranea, Sokolov può fare ciò che vuole e convincere anche l’ultimo dei Beckmesser d’accademia.

Dopo la Sonata iperclassica ma esplosiva del primo Beethoven, ecco il passaggio azzardato alle battute dell’ultimo Beethoven, quello rarefatto, poetico e icastico delle Undici Bagatelle op. 119. Quale contrasto! Ma anche quale legame... Qui Sokolov tocca momenti di assoluta bellezza, perché di ogni bagatella esalta al massimo lo spiritello audace e spesso irriverente, rivelandone da par suo ogni più piccola apertura lirica, con la forza del grande retore in azione. Praticamente è la scolpitura di ogni parola, di ogni tema, tecnica che viene applicata, con risultati per il momento meno convincenti nella seconda raccolta dei quattro Improvvisi schubertiani, l’opera postuma 142 (D. 935). Questo profondissimo lavorio sul suono e sull’affondo del tasto che sembra quasi attaccato alle falangi del pianista, alle nostre orecchie è ancora un po’ duro da digerire, abituati ad esecuzioni più lineari. L’iperventilazione di alcuni temi, la sottolineatura quasi ossessiva di certe figurazioni interne stupisce, ma lascia spesso un velo di freddo. Ma, nel caso di Sokolov, molto più che nel caso di altri interpreti, ogni concerto è – si diceva - un piccolo evento a sé, una specie di tappa solitaria di un lungo cammino di un pellegrino della musica. E ciò nonostante la maniacale messa a punto del rito stesso, compresa la scelta dei bis stabiliti a tavolino e gli stessi per tutta la tournée (stavolta erano sei: Chopin, Rameau, Scriabin, Debussy), che da soli costituiscono un terzo tempo di concerto, compresi gli inchini formali e il broncio eterno. Sokolov è unico e inimitabile, bisogna seguirlo e amarlo senza porsi troppe questioni.


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