L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Idomeneo in bianco

 di Giuseppe Guggino

Approda per la prima volta al Teatro Massimo di Palermo il capolavoro mozartiano nell’allestimento “in bianco” del Teatro delle Muse di Ancona. Nella statica cornice scenica la corretta realizzazione musicale non brilla per teatralità, se non per l’Elettra magnetica di Eleonora Buratto.

Palermo, 23 aprile 2019 - Abbaglia ma non persuade la ripresa palermitana dell’ormai museale Idomeneo creato da Pier Luigi Pizzi per il Teatro delle Muse di Ancona ben diciassette anni or sono. Si tratta di uno spettacolo ascrivibile al filone “apollineo” del celebrato scenografo-regista, che potrebbe scambiare costumi ed attrezzeria con un Tancredi o un’Europa riconosciuta, in cui la razionalità dell’alternanza bianco e nero – appena turbata dal viola riservato al costume d’Elettra – prevale su una drammaturgia che il venticinquenne Mozart seppe rendere teatralmente cangiante, ad onta di un testo poetico alquanto prolisso, nonostante l’intermediazione epistolare del padre Leopold con l’anziano abate Varesco in fase di gestazione. Se il punto di forza dello spettacolo risiede ancora nel saper rendere l’anfibia natura della drammaturgia musicale del titolo, costantemente sospeso tra opera seria italiana e tragédie lyrique francese, fra il classico dell’argomento e il barocco degli effetti speciali, fra le forme dei numeri solistici e quelle degli insiemi e dei cori, grazie ad una scena che fra paraste doriche, scale simmetriche e capriate bianche, lascia affiorare il barocco con un marmoreo mare di forgia berniniana. Nella ripresa palermitana, però, il mare permane costantemente in tempesta anche quando l’originario allestimento di Pizzi prevedeva che al secondo e terzo atto assumesse un disegno più canoviano, così come la ripresa della recitazione si presta poco a tradurre visivamente quella straordinaria capacità di ricerca timbrica di cui, con Idomeneo, il genio salisburghese pare aver voluto lasciare insuperabile saggio.

Non diversamente, a dire il vero, sembrano andare le cose in buca dove il giovanissimo Daniel Cohen pare aver piena consapevolezza della ricchezza della partitura, profondendosi in innumerevoli sollecitazioni di fraseggio alla compagine orchestrale, duttile sì, trasparente nel suono, preziosa perfino negli assoli, eppure – specie tra gli archi – stilisticamente generica. Se a Cohen – in un teatro nel quale il repertorio frequentato va dal secondo ventennio dell’800 in poi e Idomeneo approda incredibilmente per la prima volta – si fosse preferita una bacchetta meno eclettica nel repertorio (le passate scritture al Massimo di Palermo vanno da Beethoven a Britten) ma con maggiore militanza con compagini storicamente informate (da Onofri, a Biondi o Antonini) i palpabili sforzi in buca avrebbero probabilmente trovato coronamento in una realizzazione assai più gratificante. Non dissimile l’andamento generale anche sul versante vocale, giacché René Barbera – al debutto nel ruolo eponimo – canta bene, talvolta benissimo, con voce ampia, ma gli è estranea quella spericolatezza virtuosa che oggi potrebbe concedersi un Michael Spyres o un John Osborn; Carmela Remigio disegna con correttezza l’usuale sbiadito e poco proiettato ritratto d’Ilia e ad Aya Wakizono, se non l’insipido anonimato del mezzo piuttosto limitato, si sarebbe dovuto quantomeno correggere la presenza scenica e vietare la precipitosa discesa delle scale all’abdicare del padre, ché poco o punto aveva di regale.

Se Giovanni Sala, già apprezzato nei recenti cimenti mozartiani alle prese con Tamino, creano troppi problemi le due temibili arie di Arbace, sia per estensione sia per le agilità, l’unica notevole presenza della distribuzione è da rintracciare nell’Elettra magnetica di Eleonora Buratto, che sa sfruttare come freccia al proprio arco l’emissione vibrata del proprio strumento. Sonora è la voce di Renzo Ran che scioglie la vicenda con la necessaria autorevolezza, che invece latita tanto nel Gran Sacerdote di Carlos Natale quanto in una prova del Coro, pur in grande crescita negli ultimi anni grazie alle cure di Piero Monti, apparso però fin troppo poco a fuoco e privo di nerbo in questa congiuntura.

E l’impressione che se ne cava, lasciando una sala non adusa ad un’esecuzione integrale (eccettuata qualche condivisibile sforbiciata nei recitativi secchi e quella meno condivisibile della ciaccona finale), è quella di aver assistito a un Idomeno… in bianco.

foto Rosellina Garbo e Franco Lannino


 

 

 
 
 

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