L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Se la regia è al palo

 di Giuseppe Guggino

La seconda tornata di spettacoli del Luglio Musicale Trapanese non dimentica le ricorrenze, onorando il bicentenario della nascita di Offenbach e il centenario della morte di Leoncavallo con la proposta a giorni alterni di Orphée aux Enfers e Pagliacci nel consolidato abbinamento con Cavalleria rusticana. In entrambi i casi risultano apprezzabili gli sforzi sul versante musicale, mentre la parte visiva presta il fianco a qualche considerazione.

Trapani, 28 e 29 luglio 2019 - Assume una fisionomia sempre più rodata il Luglio Musicale Trapanese che sfrutta i già collaudati spazi all’aperto del Chiostro di San Domenico e della Villa Margherita per programmare a giorni alterni rispettivamente Orphée aux Enfers (nella prima versione in due atti del 1858) e il dittico composto da Cavaleria rusticana e Paglicci, per un totale di quattro recite premiate dal sold out al botteghino. Il notevole sforzo produttivo di un’istituzione dalle limitate risorse organizzative ed economiche trova una realizzazione più che degna sotto l’aspetto strettamente musicale. La lunga carrellata di divinità alla berlina del lavoro di Offenbach è l’occasione di sperimentare il palcoscenico per giovani e meno giovani, tra cui annoverare – in ordine di apprezzabilità – Miriam Carsana (Diane), Gianluca Moro (John Styx), Lara Rotili (Cupidon), Luca Vianello (Mars), Laura Delogu (Vénus), Chiara Cabras (Minerve), Tiberia Monica Naghi (Junon) e Roberto De Gennaro Crescenti (Mercure). Con verve Marta Biondo risolve il ruolo dell’Opinion publique, mentre Federica Sardella si rivela Eurydice fin troppo acerba sotto ogni aspetto. Decisamente meglio vanno le cose nel versante maschile dei protagonisti, grazie all’eleganza nel porgere di Didier Pieri come Orphée, al timbro brunito di Paolo Ingrasciotta quale Jupiter e allo smaliziato Aristée/Pluton disegnato dall’ipertrofico Marcello Nardis. Andrea Certa guida con fermezza l’Orchestra e il Coro del Luglio Musicale a ranghi ridottissimi, un poco troppo amplificati, nello spazio raccolto del Chiostro di San Domenico, di cui si utilizzano i portici e le finestre al primo piano. All’ingresso dello spazio suggestivo le aspettative sullo spettacolo crescono: Maddalena Moretti e Giorgia Ruzzante disseminano la scena di volumi prismatici translucidi a simulare delle teche espositrici, né mancano reperti classici a suggerire l’ambientazione in un museo. Poi lo spettacolo di Natale De Carolis prende forma, con il disegno luci accurato di Nevio Cavina e i costumi un poco troppo sgargianti di Simone Martini, e si coglie da subito la linea rinunciataria di non impiegare in alcun modo la chiave di lettura museale, né di tentare qualsivoglia approccio satirico, limitandosi all’ordinaria amministrazione del racconto un poco grasso, senza riuscire ad arginare le intemperanze individuali negli sfrondati dialogues, né gli effetti delle coreografie dimenticabili di Patrizia Lo Sciuto.

La serata seguente è la volta del dittico Cavalleria/Pagliacci con i protagonisti maschili invariati per entrambi i titoli e le donne ad avvicendarsi, sotto l’egida attenta e generosa di Federico Santi che, con senso pratico, sembra saper cavare il meglio che si può da una compagine orchestrale eterogenea (ancora troppo da puntellare la sezione degli archi) ma capace di raggiungere i notevoli risultati centrati già da tempo dal Coro preparato da Fabio Modica.

Su tutti si impone la magnifica Santuzza di Cristina Melis che, lavorando di cesello, sgombra il campo da vezzi di tradizione senza rinunciare ad un’emissione generosa che le vale – non a torto – il consenso più consistente agli applausi finali. Le fanno da contorno l’ottima Mamma Lucia di Carlotta Vichi e la sufficiente Lola di Sonia Fortunato, mentre suo contraltare in Pagliacci e la Nedda timbricamente un po’ più avara di Erika Grimaldi. Rosario La Spina pare essere uno di quei tenori balzato fuori da un’altra epoca, che affronta Turiddu e Canio largheggiando fintantoché può, senza rinunciare all’armamentario di vezzi del tenore verista, compresa la sistematica sostituzione vocalica, a tutto detrimento dell’intellegibilità del testo intonato. Al pari rivolto verso modelli del passato è l’approccio di Alberto Mastromarino che affronta compare Alfio con la consolidata emissione nasaleggiante e, annunciato indisposto prima dell’inizio dei Pagliacci, in Tonio è più volte colto da raucedine, ripiegando sull’omissione della puntatura nel prologo e volgendo qualche frase al grave, pur portando a compimento la recita con senso del dovere. A completare la distribuzione Tatsuya Kashi molto puntuale nella serenata di Arlecchino e il defilato Silvio di Valdis Jansons.

Lo spettacolo di Maria Paola Viano, estremamente infelice in entrambi i titoli, rispetto a quello della sera precedente merita qualche ulteriore considerazione, se non altro perché sembra scaturire da un maggiore lavoro di arrovellamento sui testi. Le scene di Antonella Conte sembrano indulgere in un eccesso di calligrafismo nel dedicarsi alla realizzazione di un piano inclinato di cui si apprezza la carpenteria lignea in spaccato, senza che null’altro sia presente oltre un minimalista ciuffo di erba ingiallita e un palo mannesmann in Cavalleria e un boccascena ligneo appena accennato per i Pagliacci, lasciando lo spazio scenico privo di ogni riferimento. Né la regista pare voler costruirne alcuno, iniziando sin dall’inizio del titolo mascagnano a muovere a destra e sinistra una banda municipale, donne con due uova di pasqua a testa e uomini provvisti del tipico dolce pasquale a pecorella in pasta di mandorle. Pur in una cornice del tutto tradizionale iniziano poi le estrosità per le quali nessuno dovrebbe sconvolgersi, qualora se ne decifrasse la ragione drammaturgica; che però si fatica a cogliere, nel portare in processione un simulacro di mega-pecorella pasquale, nel circondare Alfio da quattro “compari-boys”, nel fare agire una turiferaia via via sempre più scalmanata col turibolo fino a farla sembrare Michael Jackson, nel mostrare in scena il duello finale alla vista del coro, che poi apprende con stupore l’esito dal fatidico «hanno ammazzato compare Turiddu», pur avendovi assistito. Analogamente in Pagliacci la scena è ingombra di clown, pur essendo i solisti la solita compagnia di teatranti come da libretto, con i costumi non memorabili di Ilaria Ariemme. Qui le intenzioni sembrano ricamare ulteriormente sulla cronaca nera, introducendo due figli di Canio e Nedda (un poco di impaccio, nel duetto con Tonio), che poi ricompaiono nell’intermezzo trasformato in pantomima per illustrare la famigliola felice. Su «la commedia è finita» Canio fugge, salvo poi rientrare in scena e suicidarsi, seguito dall’ingresso di Beppe con in mano i cappelli dei due bambini. Se a tutto ciò si aggiunge la gestione delle masse dimentica delle più elementari convenienze teatrali l’impressione che si cava dallo spettacolo non è dissimile dall’ascolto di un belcantista male in arnese che si incaponisce in onerose variazioni, rigorosamente di dubbio gusto.

Prossimo appuntamento – sulla carta punta di tutta la rassegna – con l’Otello verdiano affidato alle cure registiche (speriamo migliori) di Andrea Cigni.


 

 

 
 
 

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