L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Fazil Say

Say, genialità e follia

 di Antonino Trotta

Tanto discusso ma poco discutibile: l’estrosità del pianismo di Fazil Say, ospite dell’Unione Musicale, conquista il pubblico del Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino.

Torino, 13 Febbraio 2019 – Tertium non datur: o lo si odia, o lo si ama. In fondo, quale grande artista potrebbe mai desiderare di cadere nel limbo dell’indifferenza? Fazil Say appartiene proprio a quella categoria di musicisti esuli dalla terra di mezzo, in grado tanto di far drizzare i capelli alla critica più intransigente quanto di infiammare i teatri con ardori ed entusiasmi da stadio. La platealità del gesto, gli occhi fissi al pubblico o il canto sovrapposto al pianoforte sono solo il riflesso di un’indomabilità che fatica a rimanere ingabbiata entro i rigidi schematismi della prassi esecutiva ed erompe laddove incontra anche solo una piccola fessura. Fazil Say è uno spirito libero e il suo pianismo, sempre instradato verso un preciso indirizzo espressivo, traduce in musica tutta questo incontenibile anelito di libertà, con un fare talvolta che sembra persino provocatorio. Provocatoria, o quanto meno coraggiosa, è infatti persa la scelta di stravolgere l’ordine del programma nel recital ospitato dall’Unione Musicale di Torino, posponendo così la micidiale sonata di Beethoven alla parte conclusiva della serata.

Nei sei préludes di Debussy (nell’ordine, no. 10, 12, 8, 11, 1 e 4 dal primo libro) il pianista turco incontra indubbiamente il favore di una scrittura meno severa in cui mettere a frutto la policromia del suono creato con l’ausilio del corpo e la poetica di un cantabilità ora delicata e sinuosa (soprattutto in Les sons et les parfums tournent dans l’air du soir e in La fille aux cheveux de lin), ora istrionica e accattivante (Ministrels e La danse de Puck). Ciò che invece affiora dai suoi lavori, estratti da Art of Piano (Yürüyen Köşk e Black Earth), più che una ferrea esperienza compositiva, è la capacita di assimilare forme e linguaggi differenti (la seconda sezione di Yürüyen Köşk, Lotta contro l’oscurità, ricorda, ad esempio, la Danza infernale di L'Oiseau de feu di Stravinskij) e di impastarli ad arte secondo la pratica dell’improvvisazione jazz.

Poi arriva l’Hammerklavier, il monumentale palazzo d’avorio che Beethoven progetta con geometrie lussuose, la gabbia dorata da cui Say, a cui la tecnica non manca, prova temerariamente a evadere. Chi cerca una lettura d’alta scuola, con fraseggi sopraffini, il gusto per la misura negli impasti timbrici, l’uso centellinato del pedale nei passi fugati o il tratteggio di linee compassate e limpidamente intrecciate rimarrà alquanto deluso. Di Beethoven, più che l’architettura, si esalta l’imponenza sonora e l’inventiva ritmica: l’Adagio sostenuto soffre l’agogica apparentemente istintiva ma la nervosa spavalderia della Fuga a tre voci o la risolutezza dell’Allegro iniziale si dimostrano carte vincenti in un’interpretazione, se non ortodossa, senz’altro viva e debordante di personalità. Del resto, ci sono scie di pianisti a cui chiedere un certo tipo di esecuzione, sicuramente non a Say.

E il pubblico, a giudicare dalle ovazioni che concludono ciascun segmento del concerto e tali da imporre un bis (il trascinante Rondò dalla Patetica di Beethoven), pare apprezzare questo singolare episodio di vivida musicalità, in perenne oscillazione tra la follia del genio e l’estro del virtuoso. Chi dice che la virtù sta sempre nel mezzo?


 

 

 
 
 

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