L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Cantami, o Diva

 di Antonino Trotta

Interessante, documentaristico, stregonesco: il recital di Francesca Aspromonte e dell’ensemble barocco Il Pomo d’Oro racconta al pubblico dell’Unione Musicale di Torino, incantandolo, la storia del prologo nell’opera seicentesca.

Torino, 27 Febbraio 2018 – Il prologo per anni è stato l'amuse-bouche di ogni lavoro teatrale e sebbene le sue origini siano antichissime, nel corso della storia ha avuto strutture e modalità differenti che ne hanno perpetrato l’utilizzo nel tempo. Dalla descrizione dell’antefatto nel teatro classico e medievale all’apostrofe rivolta agli spettatori nella Commedia dell’Arte, passando per le cantate allegoriche, talvolta celebrative, del periodo rinascimentale, il prologo è, indipendentemente dal compito assolto, una finestra sulla quarta parete, il locus dove musa e aedo, umano e divino, artista e pubblico possono incontrarsi. Lo sviluppo della sezione incoativa segue nella musica la stessa parabola. A eccezione di I Pagliacci di Leoncavallo dove, sulla spinta del neoclassicismo operistico, l’autore inaugura il proprio lavoro con un prologo di stampo tradizionale, l’ouverture cantata frequenterà di rado l’Ottocento, prima di cadere definitivamente in disuso, se non abbandonando la compattezza originaria per abbracciare atti interi (si pensi a Simon Boccanegra, La bella addormentata nel bosco, Mefistofele, Boris Godunov, Les contes d'Hoffmann, così per citare solo alcuni esempi), come del resto già Händel sperimenta con il Tersicore, prologo in forma di opera-balletto composto per la revisione di Il Pastor fido. Nel Seicento, però, questa struttura conosce la massima fortuna.

Il programma presentato all’Unione Musicale da Francesca Aspromonte e dall’ensemble barocco Il Pomo d’Oro – raccolto nel bellissimo album Prologue – attraversa dunque il secolo culla del melodramma per ripercorrere le tappe fondamentali nell’evoluzione del prologo che, come side effect, testimonia anche la crescita del ruolo della musica, ancora «ancella dell’oratione», nel genere teatrale in erba. Alla qualità dell’impaginato, risultato di un’encomiabile ricerca musicologica, c’è ben poco da aggiungere: la validità documentaristica del percorso già da sola corrobora l’interessante serata. A trasformare però l’occasione di approfondimento in un’esperienza esaltante è Francesca Aspromonte, specialista del repertorio e, per la classe con cui domina la scena, diva della ribalta. Nei recitativi dei prologhi più antichi (quelli di L’Orfeo di Monteverdi, L’Euridice di Caccini, L’Eritrea e La Didone di Cavalli) il fraseggio rigoglioso restituisce l’autentico valore di queste pagine in cui la musica è ancora subordinata al testo. Avvolta in un’aura incantatoria l’Aspromonte, elegante e soave, seducente per freschezza del timbro, irresistibile nelle magnetiche accentazioni, incarna appieno l’evanescenza delle figure mitologiche (La Musica, La Tragedia, Iride) che abitano l’atrio delle opere barocche. Quando poi la linea melodica si fa più presente nei fioriti ariosi del pieno Seicento (nelle introduzioni di Il Palazzo di Atlante di Luigi Rossi e di La Rosaura di Alessandro Scarlatti), il giovane soprano calabrese dimostra una spiccata affinità per il canto di grazia, tutto vocalizzato e impreziosito da trilli, mordenti e acciaccature, e lascia intravedere all’orizzonte, nel sinuoso intreccio di linee strumentali e vocali, la strada che, consolidandosi nell’era dei castrati, condurrà, finalmente, al belcanto. Il bucolico «Vaghi rivi» di Rossi, riproposta anche come bis di commiato, è forse il momento più accattivante dell’intero recital: ogni ripresa non è mai identica, muta in un dettaglio espressivo, rinasce in una sfumatura differente preservando, però, sempre la stessa intensità. Non potrebbe essere diversamente con un vero talento nell’improvvisazione che, dinnanzi agli inconvenienti della diretta, reagisce con intelligenza e sapida ironia: così, nel buco lasciato dalla corda spezzata del violino di Enrico Onofri, la Aspromonte si cimenta in un’invenzione, accompagnata al clavicembalo da Federica Bianchi, sulla ballata cinquecentesca Amarilli mia bella (dopo aver chiesto al pubblico di scegliere tra un’aria o una barzelletta improvvisata!).

Il Pomo d’Oro è un compagno di viaggio rassicurante ed Enrico Onofri, violino solista e direttore, tiene alta la temperatura del concerto anche nelle parentesi strumentali (Ricercata a violino solo da Il Dolcimelo di Aurelio Virgiliano, la Sonata Decimasesta a quattro stromenti d’arco di Dario Castello, Amarilli mia bella – passeggiato a violino e basso di Caccini e la magnifica Sinfonia in la minore per due violini e continuo di Stradella).

Il pubblico, numeroso, saluta con entusiasmo l’intera compagnia e, stregati dal canto della diva, ci si lascia alle spalle un altro fantastico concerto.


 

 

 
 
 

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