L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Anna caterina Antonacci

Gli iconoclasti

 di Alberto Ponti

Un programma sfaccettato e impegnativo si fa apprezzare, oltre che per la partecipazione di una fuoriclasse del calibro di Anna Caterina Antonacci, anche per una bacchetta sensibile e in sintonia con l'intima essenza di ogni partitura

TORINO, 8 marzo 2019 - Se esiste una caratteristica comune a tre autori per il resto assai differenti tra loro come Berlioz, Janáček e Mahler fu il fatto di essere, in vita, considerati eccellenti didatti (Janáček) o direttori d'orchestra (Berlioz e Mahler), faticando invece ad imporre le proprie composizioni, la cui fama e gloria fu per tutti tardiva, quando non addirittura postuma.

Prendiamo ad esempio la cantata La Mort de Cléopâtre (1829) di Hector Berlioz (1803-1869) su testo di Pierre-Ange Vieillard de Boismartin, pagina di raro ascolto. Alle orecchie di oggi la musica giovanile del maestro francese che precede i tumultuosi capolavori dei decenni della maturità suona un po' al modo delle opere di esordio dei componenti della seconda scuola viennese prima della rivoluzione atonale: si avverte, pur nella perfetta compiutezza di un alto traguardo artistico, quel senso di disagio nel muoversi all'interno delle convenzioni correnti tipico di chi, da lì a poco, passerà oltre. Non stupisce che anche il terzo tentativo di guadagnare l'agognato Prix de Rome fu per Berlioz infruttuoso: le menti aperte alla novità, mai abbondanti in qualsivoglia tempo e paese, non erano molte nemmeno tra i giurati del Conservatorio parigino e, nonostante il giudizio positivo di Boieldieu e Cherubini, Cleopatra fu rispedita al mittente. Anna Caterina Antonacci, accompagnata dalla bacchetta dell'inglese Edward Gardner nel concerto torinese del 7 e 8 marzo, è interprete ideale di questa ribollente scena lirica, agevolata dal suo registro che sa scendere all'occorrenza alle profondità del mezzosoprano. Timbro scuro ora sensuale ora graffiante, tecnica impeccabile, dizione francese perfetta, temperamento da attrice sono qualità difficilmente reperibili insieme, in un lavoro che tra l'altro prevede, pure nelle parti indicate come air, pochi slanci lirici in favore di lunghi recitativi drammatici illuminati talvolta da melodie di bellezza lancinante. Su tutto emerge la Méditation conclusiva, rivelazione precoce del genio timbrico del compositore, in cui la voce della Antonacci alle parole 'Grands Pharaons' si leva come dal nulla con effetto meravigliosamente teatrale, tra il respiro sincopato degli archi, acquistando forza crescente ad ogni nota per librarsi da dominatrice sopra i misteriosi accordi di corni, tromboni, fagotti e clarinetti e toccare, alle due ripetizioni successive, un la e un sol bemolle sopra il rigo di squisita magnificenza.

Ad aprire la serata all'auditorium 'Toscanini', sotto la curata direzione di Gardner che si è avvalso, in prima esecuzione assoluta, della nuova versione critica di Jiří Zahrádka (2019), era il breve preludio, denominato Žárlivost (Gelosia), che Leoš Janáček (1854-1928) scrisse nel 1894 per la sua opera Jenůfa, salvo decidere di espungerlo in occasione della prima rappresentazione a Brno nel 1904. Brano anticonvenzionale dalla forma assai libera, esso deforma in modo ora grottesco ora appassionato ma sempre sfuggente, al modo di un folle che non riesce a soffermare il proprio pensiero su un oggetto preciso, una vecchia canzone popolare il cui protagonista è per l'appunto un uomo divorato dall'insano sentimento evocato dal titolo. Si mette già in luce in questi sei minuti lo smalto particolare, la felice messa a fuoco del pathos febbrile di Janáček, evidente nell'efficace asciuttezza nell'urlo degli ottoni come nell'ironico accento dei violini dell'Orchestra Sinfonica Nazionale, che il direttore britannico riesce a imprimere anche nella grandiosa Sinfonia n. 5 in do diesis minore (1901-02) di Gustav Mahler (1860-1911) eseguita dopo l'intervallo.

Non staremo qui ad insistere sulla visionarietà e sull'innovazione sovversiva, palesi fin allo sguardo più distratto, di una scrittura cui probabilmente solo la malattia che rapì alla vita l'autore impedì l'estrema indagine oltre i confini della tonalità. Il dissidio tra la perentorietà degli squilli di tromba e la mestizia inconsolabile del tema cantabile nella Trauermarsch di apertura, le pungenti interiezioni del secondo movimento Stürmisch bewegt, l'Adagietto traboccante di fiducioso, ma allo stesso tempo, disperato abbandono: tutti i multiformi stati d'animo compongono un quadro ricomposto dal podio con coerenza interiore e cura del dettaglio all'interno di scelte agogiche sostenute e incalzanti.

Esemplare per chiarezza è il lavorio dei temi e delle voci nel complesso e vastissimo Scherzo così come nel Rondo-Finale: ogni tassello trova ancora la sua giusta collocazione in una lettura capace di conferire il giusto peso alla miriade di elementi eterogenei nel vasto affresco della sinfonia mahleriana. A mancare, sacrificata dalla velocità dell'esecuzione, è forse solamente l'inflessibilità energica di certi stacchi, massima nelle due chiusure di movimento a piena orchestra, e se l'inciso delle trombe alla fine del Rondo conserva l'implacabilità logica di un racconto compiuto ma non rasserenato, il fulminante doppio salto d'ottava discendente dello Scherzo ferisce senza incenerire. (E Mahler sapeva bene quanto dovessero risuonare annientanti questi accordi, facendoli seguire, come morte seguita dalla rinascita, dall'inesprimibile sostanza dell'Adagietto). Peccati perdonabili di un'interpretazione personale e fremente, apprezzata con lunghi applausi per i protagonisti del concerto, tra cui, oltre a Gardner e alla Antonacci, non si può non tacere, nella Quinta, insieme ai componenti dell'OSN Rai al gran completo, l'ottimo corno obbligato di Guglielmo Pellarin con una prova vicina alla perfezione.


 

 

 
 
 

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