L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il fuoco della poesia

 di Mario Tedeschi Turco

In un programma che spazia dalla Russia zarista e sovietica agli Stati Uniti, Mischa Maisky e I Virtuosi Italiani danno prova di un vigoroso slancio interpretativo, ben sorretto nell'arte del fraseggio e nella consapevolezza tecnica.

VERONA, 24/05/2019 - C’è un momento, nella transizione dal secondo movimento al terzo del Concerto per violoncello di Schumann, il quale potrebbe a buon diritto fornire una sintesi della Romantik tutta: alla quarantaduesima misura, attacca il Tempo I dopo una quinta discendente anapestica ritardando, dando il via a una progressiva accelerazione sempre più spasmodica, in una cascata di ottavi oscillanti su modulazioni cromatiche nelle quali il solista pare come opporsi ostinatamente agli interventi dell’orchestra, proclamando la propria alterità, il proprio diritto irriducibile all’individualismo, lo stesso che la cantilena grave e rassegnata della prima parte aveva affermato con tono elegiaco struggente. Bene, attendevamo precisamente questo momento, essenziale, per valutare il tipo di interpretazione che Mischa Maisky e I Virtuosi Italiani intendevano dare al capolavoro in programma (nella sua versione per cello e soli archi): una specie di controprova, a dire il vero, di quanto già nel primo movimento avevamo intuito. Il solista lettone ha conservato l’arte suprema del fraseggio intatta, dai tempi della sua furiosa giovinezza, così che il luogo citato è stato reso con una tensione a dir poco snervante, ansiosa, in cui le variazioni di carattere e formali e il conflitto dialettico di base del brano si è palesato con un’energia, una tornitura timbrica, una naturalezza di canto di bellezza difficilmente esprimibile con le parole. Maisky si è preso anche dei bei rischi nell’impeto iper-passionale con il quale ha inteso restituire il brano, così che la mano sinistra è andata fuori posizione due o tre volte, sporcando lievemente un’intonazione altrimenti immacolata anche nei passaggi nei quali, come osserva Arnfried Edler, i rapporti asimmetrici sono da gestire con la massima libertà agogica. Uno Schumann elettrizzante, dalla varietà dinamica stupefacente, dal senso desolato d’un monologo elegiaco assai più prossimo allo psicologismo lacerato che non alla scrittura drammatico/dialettica tipica dello stile classico-romantico.

Abbiamo voluto iniziare subito con questa osservazione sull’Op. 129 il nostro resoconto critico, perché in quell’esecuzione si sono udite le cose più memorabili; ma l’esibizione di Maisky e dei Virtuosi era già cominciata benissimo con l’esecuzione, senza soluzione di continuità tra i due brani, del Notturno in re minore di Čajkovskij e del Kol Nidrei di Max Bruch. Se del primo brano si è rilevato l’altissimo senso del canto spiegato (cosa che è accaduta anche nel primo bis offerto dal solista e dall’ensemble, l’Andante cantabile trascritto dal Quartetto n. 1 del medesimo autore), nel pezzo di Bruch soprattutto la grande elasticità ritmica nella variazione sincopata centrale ha reso con rifinitura davvero rimarchevole la scrittura idiomatica del compositore tedesco. In generale, Maisky è apparso vigoroso ma controllato, preciso ma equilibrato, al servizio della musica, come dev’essere, non ostentando mai virtuosismi pur possibili, che ha invece riservato al secondo bis, un Preludio della Prima suite per violoncello di Bach eseguito a velocità supersonica: ed è stato un gesto assai significativo, crediamo, con il quale questo superbo musicista ha voluto sottolineare che i fuochi d’artificio gli riescono ancora come vuole e quando vuole, all’occorrenza, ma che prima di tutto viene la musica e la sua poesia.

E di poesia, ovvero di espressione sintetica di concetto ed emozione, è stato prodiga la magnifica orchestra d’archi, in tutto coprotagonista del concerto. In formazione 1+4-4-3-3-2, l’ensemble guidato da Alberto Martini (che è anche direttore artistico della stagione concertistica ospitata al Teatro Ristori, giunta in questa serata affollatissima alla conclusione) non è solo di perfetto affiatamento, di bel timbro alieno da ogni turgore fuori luogo, di geometrica precisione negli attacchi, ma altresì palesa un’idea ben precisa di cosa debba essere un concerto quale occasione di conoscenza: il Čajkovskij dell’Elegia per archi ad aprire; poi la serie di brani con Maisky; poi la seconda parte, con la giustapposizione efficacissima dell’Adagio per archi di Barber e la trascrizione del Quartetto n. 8 di Šostakovič. Si tratta di due brani dal registro omologo – mestissimo, desolato il primo; tragico fino all’aggressività il secondo – che ottimamente si accoppiano nonostante la grande diversità di stile. L’immobilità iconica di Barber, la sua totale mancanza di sviluppo, la sua essenza di ondulatoria variazione dinamica sino allo svanire nel nulla hanno ricevuto dai Virtuosi Italiani una interpretazione di rara intensità: i musicisti nemmeno avevano bisogno di guardarsi per trovare il timing retoricamente esatto vuoi nel dialogo, vuoi nelle diversificazioni di peso sonoro (molte, perfettamente calibrate, “sentite” con pathos vibrante), così che l’avvolgersi su se stesse delle spirali sonore davvero ha evocato le lontananze siderali che il regista David Lynch, nel finale del suo Elephant Man, interpreta abbinando questo brano alla morte malinconica ma serena del protagonista. Quanto all’Op. 110 del Maestro sovietico, Martini e i Virtuosi hanno puntato molto sui contrasti agogici dei vari movimenti, offerti con un piglio ansioso al limite del nevrotico (laddove l’aggettivo ha da intendersi come interpretazione del tutto appropriata al gesto compositivo d’impianto), cui la rapida citazione del Dies irae nel secondo Largo non ha fatto che aumentare il connotato di una musica tra le più tragiche mai scritte. Una grande prova, una compagine da camera che non ha nulla da invidiare alle altre ascoltate a Verona in questa stagione (la Mahler Chamber Orchestra, la Münchener Kammerorchester e l’Amsterdam Sinfonietta: le enumeriamo, giusto perché l’appassionato non pensi solo alle grandi orchestre sinfoniche, come riferimento d’eccellenza esecutiva), nella quale rigore, puntualità, esattezza sono tutt’uno con lo slancio e l’emozione. Come sempre dovrebbe accadere.

Čajkovskij, Elegia per archi

Čajkovskij, Notturno in re minore per violoncello e orchestra

Bruch, Kol Nidrei per violoncello e orchestra

Schumann, Concerto in La minore per violoncello e orchestra, op. 129 (versione per violoncello e archi dell’autore)

*

Barber, Adagio per archi, op. 11

Šostavovič, Quartetto n. 8 in Do minore, op. 110 (trascrizione per orchestra d’archi)


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