L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il sogno dell'artista

 di Andrea R. G. Pedrotti

Fra Schumann e Berlioz, Mariss Jansons esalta i Wiener Philharmoniker illuminando colori, rubati e perfino pause in un programma che sembra delineare un'ideale biografia artistica affine all'esperienza dello sfortunato compositore tedesco.

VIENNA, 31 maggio 2019 - Nell'ultimo giorno di maggio, al Konzerthaus di Vienna, è tempo di riascoltare dopo alcuni giorni i Wiener Philharmoniker, questa volta con uno dei direttori che maggiormente hanno segnato la storia recente del prestigioso organico, Mariss Jansons.

Il programma del concerto ha avuto inizio con la “Sinfonia n. 1 in si bemolle maggiore per orchestra "La Primavera", op. 38” di Robert Schumann. Come buona parte delle composizioni del musicista tedesco in essa ritroviamo un'aura di positività, niente affatto riverberata nell'esistenza di Schumann, forse troppo idealista e vittima delle reali asperità della vita che, nemmeno nei lieti eventi, egli seppe affrontare con serenità. Così Jansons e i Wiener Philharmoniker affrontano la partitura, rendendone con suono brillante, nella precisa scansione del tempo, l'atmosfera di bucolica gioiosità di quella primavera che è simbolo stesso di rinascita.

La sinfonia di Schumann con i suoi significati, offre il dovuto lancio a quello che è l'autentico capolavoro esecutivo della serata, concepita quasi come fosse una biografia. La Primavera è simbolo di speranza, la ciclica palingenesi annuale che saluta le genti, vede lo sbocciare dei fiori e l'azzurro del cielo: oltre a ciò, la musica di Schumann rappresenta il sogno di un uomo che fu artista proprio nel suo continuo inseguire un sogno, talmente idealizzato da non goderne il frutto mai, nemmeno quando questo, ossia l'unione con l'amata Clara, fosse stato colto. È il sabato del villaggio, che prelude alla vita d'artista, quella reale.

Facciamo, dunque un salto all'indietro di undici anni (Schumann compose la sua sinfonia nel 1841) e trasferiamoci nella Francia del 1830, al tempo di Luigi Filippo e della fallita Restaurazione, con Berlioz che - a suo stesso dire - subisce l'influenza di Goethe e del romanticismo tedesco. E, proprio nel progetto e nel programma della sua Symphonie fantastique pare di ritrovare una descrizione della biografia di Schumann, suddivisa in cinque movimenti.

Il primo movimento narra di un artista vittima di “Rêveries – Passions” dopo aver avuto ventura d'aver incontrato la donna amata: qui il pensiero non può che correre a Robert e Clara, con la celeberrima pianista, al pari della fanciulla immaginata da Berlioz, a divenir ossessione morbosa per l'artista. Una suggestione che riconosciamo anche nel prosieguo, quando l'ebbrezza d'amore si muta da elegia bucolica a “Marche au supplice”, ronda sabbatica e “Dies irae”, icona di follia. Lo stesso percorso compiuto da Schumann.

Il capolavoro di Jansons e dei Wiener Philharmoniker si manifesta nelle sonorità che assieme riescono a cogliere proprio nella sinfonia di Berlioz. Il primo movimento fa da introduzione, bello, elegiaco, intriso del senso traumatico del sogno d'amore. Il walzer del secondo movimento con il tempo di “allegro non troppo” racconta in un contesto degno della poetica di Heine l'idée fixe, tema ricorrente della sinfonia, dell'artista, personificazione del fascino etereo e femmineo dell'oggetto del suo desiderio. Si sa che l'orchestra viennese ha il walzer inciso fiammeggiante nel suo patrimonio genetico, ma la difficoltà è saperlo rendere rispettando quel “non troppo”, indispensabile a far da collante, con la crescente angoscia (il romanticismo qui si rifà ancora prepotentemente allo Sturm und Drang) che sta per giungere debordante.

L'apoteosi di bellezza giunge nell'“allegretto ma non troppo” della “Marche au supplice”, quando i Wiener Philharmoniker salgono in cattedra riaffermando ancora una volta, casomai fosse necessario, il loro imperio fra le migliori orchestre al mondo. L'unica brillantezza degli ottoni rimanda al clima dell'arcadia, accompagnata dal suono dei timpani. Sono tuttavia i legni e gli archi a dominare la scena (in perfetto stile francese) e a rendere la semantica richiesta dal compositore.

Tutta la scena dello Sabbat è magistrale, grazie al colore demoniaco particolare, difficilmente descrivibile reso dai fiati, mentre la policromia e le sonorità che riescono a regalare gli archi paiono infrangere qualsiasi legge della fisica, tanto è ampia la tavolozza della filarmonica di Vienna anche nel più minuto fra i pizzicati.

Mariss Jansons richiede dettagli che in altri contesti sembrerebbero impensabili e li ottiene ai massimi livelli, possibili, ma non immaginabili, prima di averli uditi dal vivo. Ma non si tratta esclusivamente della capacità di sfruttare il bagaglio tecnico dell'orchestra nelle dinamiche, capaci di spaziare da soffuse sonorità in pianissimo, fino al ripetersi di un fortissimo di inebriante bellezza: la grandezza del direttore si fa ammirare anche per la capacità di sfruttare le pause o il più impercettibile rubato celato nel pentagramma di Berlioz.

Al termine non poteva essere che meritato tripudio per un'orchestra e un direttore che si sono spesso incontrati e che, ci auguriamo, possano farlo ancora molte volte in futuro.


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