L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il sangue freddo di Chung

 di Antonino Trotta

Ancora un appuntamento d’eccezione al MiTo Settembre Musica: grazie alla sublime direzione di Myung-Whun Chung, al virtuosismo in punta di fioretto di Alexander Romanovsky e l’ottima compagine della Filarmonica della Scala, la Russia di Rachmaninov e Čajkovskij incanta il Teatro Regio di Torino.

Torino, 13 settembre 2019 – Per dirigere un’orchestra occorre sangue freddo: gli spartiti sono pieni di insidie, subdole tentazioni, sabbie mobili in cui si rischia di rimanere impelagati e trampolini di lancio da cui balzare nel vuoto; per non parlare poi dell’orchestre o dei solisti, che in un attimo sfuggono di mano. Non è il questo caso, sia ben chiaro fin da subito – e prima che l’introduzione all’articolo possa preludere a scenari nefasti mai verificatisi –, della Filarmonica della Scala o di Alexander Romanovsky che al Regio di Torino arrivano in forma smagliante; ci si riferiva piuttosto a quella capacità di imprimere alla partitura una varietà lirica, una reale persuasività narrativa, anche opinabile, che non si esaurisca nelle parentesi di ciascun movimento ma si estenda per tutta l’arcata dell’opera – e perché no, persino all’intero concerto – cosicché il cerchio si apra quando la bacchetta prende il volo e si chiuda solo nel momento in cui essa torna a riposare sulle pagine a cui ha dato vita.

Ecco, con Myung-Whun Chung sul podio, questa sensazione di intensa coesione drammaturgica, di ampissima visione d’insieme, di proficua consequenzialità del racconto, ora logica, ora emotiva, viepiù se pronunciata a mezzo di un incredibile senso dell’equilibrio inteso come dominio assoluto delle travolgenti forze interne all’orchestra e alla partitura, si fa peculiarità quiescente della concertazione. Nel mezzo dell’esecuzione allora ci si sofferma sulla pulizia del dettaglio, sulla ricercatezza del fraseggio, sull’attenzione maniacale al segno e alla sfumatura, sull’orchestra che non esplode mai nel punto in cui, talvolta volgarmente, si desidererebbe; poi arriva il traguardo in direzione del quale Chung muove le masse strumentali, il culmine del suo discorso ermeneutico, la conclusione della sua esegesi, e non si può esclamare che “wow”.

Così nel famigerato Rach 3, il concertuccio che apre la serata MiTo ubicata in Russa, Chung accompagna il pubblico all’uscio di una porta spalancata sull’intimità del compositore, sottolinea e lascia germinare l’elementare cellula tematica, la fa rimbalzare in lungo in largo, dai violini ai violoncelli, dai legni agli ottoni, riproponendola all’uopo con un rubato di gran classe, quasi fosse l’eco di un pensiero inquieto che vagabonda nella mente di Rachmaninov e induce le ombre del re minore – stupefacente, in quest’ottica interpretativa, la vaporosa e straniante sezione in fa diesis minore dell’Intermezzo (Adagio) centrale –, fino a farla sbocciare nello sviluppo in maggiore del finale, dove finalmente si potrà ascoltare la Filarmonica deflagrare in un lampo di luce accecante. E il bello è proprio qui: finora i complessi scaligeri con cui, è all’orecchie di tutti, Chung palesa una formidabile sintonia, hanno sì sfoggiato una caleidoscopica moltitudine di colori, uno spettro timbrico pressoché opulento, ma mai si sono avventurati in sonorità prorompenti e pompose a cui la scrittura dei russi invero istiga. Niente subito. Prediamo ad esempio la sezione del primo movimento in cui il pianoforte fronteggia l’orchestra in un duello di succulenti accordi, prima della cadenza: ivi Chung riconosce la potenza drammatica del periodo non nella veemenza con cui esso è proferito, bensì nell’irrequietezza che il sincopato indomito suggerisce – in poche parole, se ciò che si dice ha valore, non c’è bisogno di urlare – e appuntisce all’orchestra affinché non si perda un battito dell’infernale sequenza. E Romanovsky, a onor del vero, ne fa le spese con qualche accordo ribattuto un po’ appiccicato e un fraseggio che fatica a reggere il passo con la mente concertante – ma la scrittura pianistica è davvero impervia e il tempo staccato qui tutt’altro che comodo –. Se però tralasciamo ancora qualche intemperanza limitata alla sola cadenza e un paio di sbavature che nemmeno si prendono in considerazione in un pezzo di tale portata, la prova del giovane pianista ucraino può senza dubbio considerarsi di indiscutibile spessore, soprattutto laddove al solista si richiede agilità di grazia, ossia evanescente, fulminea, in punta di fioretto, come nel poco più mosso adamantino del secondo movimento o nello scherzando del Finale (Alla breve) – tant’è che questa dote si riconferma poi nel primo fuoriprogramma, la Mazurka Op.30 No. 4 di Chopin –. In effetti la lucentezza del suono, l’utilizzo mirato del pedale di risonanza, la musicalità con cui lega o slega frasi, modernizzano non poco la resa di questo capolavoro e calzano a pennello con l’idea di virtuosismo quale linguaggio espressivo e non soggetto vanaglorioso dell’esibizione. Da non perdere allora il recital che inaugurerà la stagione dell’Unione Musicale, il prossimo 16 ottobre, in cui eseguirà gli studi di Chopin e di cui, come ultimo bis, si è ascoltato l’Op. 25 no. 12.

Ma col terzo di Rachmaninov siamo solo all’inizio: è di fatti la sesta sinfonia di Čajkovskij, che senza troppi indugi si potrebbe considerare la summa della sua esperienza sinfonica, a segnare la vetta del magistero direttoriale di Chung. Il lavorio sulla qualità degli impasti, con un materiale di prima qualità come quello offerto dalla Filarmonica, si fa ora sostanziale alla raffigurazione dell’avanguardia di cui Čajkovskij fu in fondo fautore: la Patetica di Chung non procede mai per giustapposizione di chiaroscuri ma al contrario evolve per peregrinazioni coloristiche flessuose, anche quando dal guardingo Adagio invola l’orchestra alle turbolenze dell’Allegro non molto (primo movimento), che allarga e stringe senza mai farsi prepotente o melenso. D’altronde il controllo dell’orchestra è tale da permettergli vertiginose piroette in alta quota: se ne ha esempio nella cabrate improvvise dell’Allegro con grazia, elegantissimo per il suo fraseggio pieno di spirito e il panorama di vezzose agogiche entro cui si ode la risonanza dello Schiaccianoci. L’Allegro molto vivace seguente non è da meno, leggerissimo eppur istrionico, solerte ma non sbrigativo, un vero e proprio climax che carica la molla e tempera l’ascoltatore per il Finale. Finaleche fin dalle prima arcate s’erge struggente, malinconico, crepuscolare, destinazione e destinatario di una poetica interpretativa che adesso sembra vivere nel contrasto a quanto sinora ascoltato: il legato si accentua all’inverosimile, il velluto sonoro si fa denso e impenetrabile, per certi aspetti oscuro, ferale, con i soli ottoni a spadroneggiare sulla campata orchestrale, a presagire la morte.

Anatema sul possessore del registratore il cui segnale acustico di fine acquisizione ha spezzato la magia sprigionata da Myung-Whun Chung (megabyte più, megabyte meno, si poteva attendere qualche minuto in più!). Dopo quest’ultimo movimento non si ha voglia di applaudire, le ovazioni si sprecano. Sublime.


 

 

 
 
 

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