Il ritratto del mondo
di Alberto Ponti
Nella serata inaugurale di Rai NuovaMusica un programma tutto a stelle a strisce offre, attraverso brani molto diversi tra loro, uno spaccato sulla multiforme complessità della nostra epoca.
TORINO, 31 ottobre 2019 - Un merito notevolissimo dei concerti di 'Rai NuovaMusica', diventati presenza fissa all'interno delle stagioni dell'Orchestra Sinfonica Nazionale con un seguito di pubblico crescente di anno in anno, è quello di mettere spesso gli ascoltatori a confronto con pagine non ancora sottoposte al giudizio della storia. La componente di sorpresa, rispetto a un concerto tradizionale dove si eseguono quasi sempre capolavori ben conosciuti, è massima, con lo spazio per interrogativi e domande in cui le impressioni personali, tra i giovani come tra gli anziani dell'uditorio, non temono l'accostamento con i giudizi critici ormai cristallizzati dei pezzi del passato.
Non è certo il caso di The Unanswered Question (1908), opera tra le più note ed eseguite di Charles Ives (1874-1954) proposta, nella penombra volutamente acuita della sala con la tromba solista e il gruppo dei fiati disposti in balconata, come preludio al programma diretto da Ryan McAdams giovedì 31 ottobre nel primo appuntamento dedicato ai suoni della contemporaneità. Nella loro scarnezza estrema, questi sei minuti di musica sanno creare un magnetismo suggestivo destinato ogni volta a produrre una sensazione di inquietudine ineffabile e sfuggente e confermano che la statura di un artista può essere massima anche con l'impiego di mezzi ridotti e di relativa semplicità.
Il trentasettenne maestro newyorchese, reduce dai Pêcheurs de perles di Bizet che hanno aperto la stagione del Teatro Regio, dimostra una bella versatilità in una serata che, senza soluzione di continuità col brano di Ives, propone il recentissimo (2017) Concerto n. 3 per pianoforte e archi di Philip Glass (1937), solista Simone Dinnerstein. Il lavoro, creato dalla stessa Dinnerstein e in prima esecuzione Rai a Torino, si articola in un fluire ininterrotto di pulsioni regolari anche da un punto di vista agogico attraverso tre movimenti senza indicazione di tempo e non si discosta in apparenza dall'inconfondibile cifra stilistica del suo autore. A colpire sono alcune originali e inconsuete aperture melodiche nella parte centrale e all'inizio del finale, che sembrano nascere da una volontà di canto libera ed estranea in apparenza alla logica ferrea del minimalismo su cui è imperniata la scrittura. Forse Glass, con la saggezza dei grandi vecchi, sa che le licenze non nuocciono all'arte e si diverte con eleganza ed ironia nel centellinare, al modo di tracce sotterranee, elementi che potrebbero far pensare a mezze confessioni, a sussurri affettuosi di un vissuto soggettivo tosto riassorbiti dallo zampillo di accordi levigati del pianoforte e note tenute degli archi solo in apparenza impassibile e distaccato.
Simone Dinnerstein si cala alla perfezione in un reticolo di armonie che è la negazione di ogni virtuosismo esteriore, nonostante la massima concentrazione richiesta alla tastiera per coinvolgere il pubblico torinese nel gioco di chiaroscuri liquidi e luminescenti, appena accennati eppure innegabili, che costituisce il fascino sottile e potente del concerto al pari di altre pagine di Glass. Sempre lui è il protagonista dell'encore, con il brillante Étude n. 6 in cui la pianista statunitense dà prova, accanto a una classica compostezza in grado di restituire con scarlattiano splendore la cascata di note ribattute del pezzo, di una straordinaria varietà nel tocco e di un raffinato controllo della dinamica del suono.
La chiusura è affidata alla première italiana di Play (2013) di Andrew Norman (1979), composizione assai ambiziosa e di enorme interesse per intuire le tendenze tra le ultime leve di autori di musica sinfonica. Norman sa scrivere per orchestra con profonda perizia, conosce e sfrutta sovente fino al limite le potenzialità timbriche ed espressive di ogni strumento, creando un vasto affresco percorso dagli stati d'animo più mutevoli e distanti tra loro. Si passa così dalla rabbiosa farragine percussiva ed espressionista della prima parte, con scaltri richiami a topoi dei sommi nomi del Novecento (da Bartók a Schoenberg a Stravinskij), a momenti di abbandono ipnotico e meditativo delle successive due. L'idea alla base del tutto, spiegata da una simpatica e puntuale introduzione dello stesso McAdams prima di imbracciare la bacchetta, si può riassumere nell'impressione di partecipare a una sorta di grande videogioco, da cui la suddivisione dei tre movimenti in Level I, Level II e Level III, con la progressiva ribellione dei giocatori al sistema, rappresentato dal caos ordinato delle percussioni dalle quali prende avvio il discorso. Ad esso si intreccia la metafora del controllo che l'odierno mondo digitale è in grado di esercitare sul singolo individuo con la conseguente impossibilità di sfuggire a questa regola pur rendendosene conto. Tematiche attuali, sfuggenti e complesse declinate con originalità di invenzione e forza immaginifica ma che probabilmente nemmeno un lucido cantore del nostro tempo, un Tom Wolfe passato dalla penna allo spartito, potrebbe fotografare nella loro molteplicità di vibrazioni sfaccettate.
Sullo sfondo, tra il meritato successo tributato all'impegno e al valore di tutti gli interpreti, rimane l'eterna e ineludibile domanda (senza risposta?) di quanto spunti extramusicali siano oggi necessari per instaurare un dialogo tra autore e pubblico in un contesto che, analogamente a quanto sta già accadendo per le arti figurative, sembra, pure accanto a un indiscutibile competenza e preparazione sul campo (quella che una volta sarebbe stata definita 'mestiere' nel senso più alto del termine), di non poter fare a meno di una piccola o grande componente concettuale.