L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Belcanto d’avorio

di Antonino Trotta

Nel concerto MITO SettembreMusica tutto dedicato a Chopin Andrea Lucchesini, accompagnato dagli archi dell’Orchestra Filarmonica di Torino, s’impone per un pianismo da autentico fuoriclasse.

Torino, 17 settembre 2020 – Quando si parla o si legge dei concerti di Chopin spesso l’attenzione pende minacciosa sulle qualità della sua scrittura strumentale. Qualità che, soprattutto nel contesto della scuola romantica ove s’intende il concerto come l’arena che ospita la sfida tra la moltitudine orchestrale e l’audacia solistica, potrebbero effettivamente apparire abbastanza limitate. Se però si mette in conto l’assenza di questo serrato antagonismo, di questo rinunciabile tópos compositivo nella produzione del Polacco, quanto prima appariva piuttosto modesto si potrà ora intendere come aderente a una poetica del tutto differente, per certi versi autonoma. In effetti i concerti di Chopin, come anche l’altra manciata di prodotti per pianoforte e orchestra, sembrano avere più punti in comune con le creazioni degli operisti italiani – ah, quei salotti parigini di inizio Ottocento! – che con i lavori dei colleghi più stretti.

L’influenza belcantista, del resto, è innegabile e lampante. Basta ascoltare un notturno, ad esempio il celeberrimo op.9 n.2 in mi bemolle maggiore che Andrea Lucchesini esegue magistralmente in apertura del concerto di MITO SettembreMusica Voci immaginarie, per ravvisare nello stile pianistico di Chopin il culto della voce tutt’altro che immaginaria, della variazione che rapisce per espressività anche a fronte di un’ingente domanda virtuosistica, della soavità della melodia sbalzata in primo piano su un accompagnamento talvolta convenzionale.

Con l’ascolto della Grande Polonaise brillante précédée d’un Andante spianato op. 22 o, meglio ancora, il concerto n.2 in fa minore op. 21, l’immagine dell’orchestra quale diaframma del pianoforte, respiro che sostiene e proietta in alto il canto, sembra poi interpretare alla perfezione la peculiare forma di scrittura. Essa di fatto non integra quasi mai la narrazione del solista – a eccezioni di poche battute dove ciò sembra accadere più per rispetto della prassi che per reale esigenza espressiva – né vi si sostituisce – a meno che le mani non abbisognino di rifiatare –, ma si limita a sfumare i contorni del discorso pianistico, ad amplificare i colori della tastiera, a conferire qui e là una vibrazione diversa alla musica – i pizzicati degli archi nel secondo concerto, ad esempio, che tra l’altro l’OFT esegue alla perfezione –. E come nelle grandi scene d’opera, il solista è lasciato nudo alla ribalta, da solo a decretare il valore e l’esito dell’intera esecuzione, senza una rete di protezione che ne possa eventualmente ammortizzare la caduta. Lucchesini, per nostra fortuna, non ne avverte alcuna necessità anzi, forte di un ricco patrimonio tecnico e musicale, procede sicuro quasi senza prender fiato. Da autentico belcantista, egli gestisce con raffinata musicalità il ritmo – Chopin che sbrodola a destra e manca è inascoltabile –, scolpisce nel fraseggio un’eccezionale varietà d’accenti che rendono imprevedibile e viva ogni arcata melodica, dona colore all’intricato tessuto pianistico, mette in risalto ogni trama e ogni filigrana del dettato. Il tocco, preciso e pressoché infallibile, soppesa con estrema perizia ogni nota, attacca il tasto senza mai rinunciare alla rotondità dello smalto. I pianissimi, poi, sono bellissimi e hanno tutto ciò che si confà a un pianissimo che si rispetti: morbidezza nell’emissione e incisività pari, se non superiore, a un suono stentoreo. Gli archi dell’Orchestra Filarmonica di Torino guidati dal primo violino Sergio Lamberto, s’è già detto, suonano molto bene e nonostante le prime parti suonino con encomiabile intenzione imitativa, nelle versioni per soli archi – è di Federico Gon l’arrangiamento della Polonaise e di Giorgio Spriano quello del concerto –, proprio in virtù delle funzioni coloristiche e atmosferiche dell’orchestra, si avverte la mancanza degli altri strumenti.

Accolti dal tripudio del pubblico – duecento motivati certe volte sanno valere, al cospetto dell’applausometro, come millecinquecento –, gli artisti si congedano con ben due bis: il secondo movimento del quarto concerto di Beethoven e il delicatissimo Arioso dal concerto in fa minore BWV 1056 di Bach.


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