L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il ciclo della memoria

di Roberta Pedrotti

Roberto Abbado dirige il Requiem che il Festival Verdi dedica alla tragedia della pandemia, a chi ne è colpito e chi contribuisce a combatterla. L''intelligente interpretazione della partitura come un ciclo infinito e sospeso ne rinnova il valore di esperienza viva e concreta, non di evento astratto e autosufficiente.

PARMA, 18 settembre 2020 - A dircelo non sono solo le parole del sindaco Pizzarotti che ricorda le vittime e ringrazia tutti coloro che hanno prestato la loro opera nell'emergenza prima di invitare a un momento di silenzio. A dircelo, ancora una volta, è la musica stessa, che non può mai essere solo tale, ma si iscrive in un contesto, si muove in uno spazio, parla in un momento preciso: il Requiem di Verdi nel parco Ducale, per quanto iscritto nel calendario canonico del Festival parmigiano, non è un evento astratto che basta a sé stesso, in sé stesso ha la sua ragion d'essere e il suo significato. 

Fra la facciata del palazzo Ducale e gli alberi del parco, il brusio della natura al crepuscolo e i suoni più lontani delle strade, l'acustica dispersiva puntellata dall'amplificazione discreta lascia spazio alle scelte dinamiche significative di Roberto Abbado, con un attacco sottilissimo, che è più un'idea di suono evaporata fra le fronde prima che sussulti la prima sillaba di "Requiem aeternam", poi, più deciso e perentorio, "Te decet hymnus". Sembra quasi che la musica sorga da un sentimento collettivo e prenda pian piano forma, palpiti determinando i suoi accenti, il suo movimento nel tempo, che Abbado sottolinea lasciando ben percepire, via via, la presenza dei timpani a scandire quasi un battito cardiaco sottinteso al tessuto orchestrale, o il senso dei pizzicati degli archi, che sembrano ora lacrime ora arpe angeliche, ripiego doloroso o dolce consolazione. Il discorso segue un filo ininterrotto anche nelle transizioni, nel fluire dal pieno al vuoto, dal culmine della tensione collettiva all'espressione più raccolta quasi senza soluzione di continuità, risolvendo i contrasti in un moto perpetuo, una macropulsazione in cui si condensano impulsi e palpiti sempre più minuti e si iscrive un'unica struttura ciclica. Il Dies Irae ricorrente sembra quasi una forza magnetica che determina il moto intero di questo senso di ricerca, smarrimento, dolore, consolazione. È un fulcro, un fuoco che tende l'arco e poi via via, nell'articolarsi delle invocazioni solistiche finali, da furioso giorno d'ira diventa anelito di quiete e liberazione. Avvertiamo quasi fisicamente il trasecolorare del Dies Irae sottinteso e riemergente come fiume carsico nel Libera me che chiude il ciclo, tornando a ripiegarsi in quell'idea sottile e inafferrabile di suono da cui era nato tutto.

In una tale visione, l'orchestra, la Filarmonica Arturo Toscanini, e il coro del Teatro Regio preparato sempre dal maestro Faggiani sono inevitabilmente protagonisti, ma non a discapito dei quattro solisti che, viceversa, sembrano emergere dalla collettività, farsene portavoce e svilupparne il pensiero, facendosi a loro volta cardine del discorso. Le voci femminili così morbide e pastose di Eleonora Buratto e Anita Rachvelishvili (debutto a Parma e sostituzione di lusso per la collega inizialmente prevista e impossibilitata a recarsi in Italia) si combinano a meraviglia in questo senso. La prima combina la ricchezza del timbro a un'espressione di franca umanità, fino a un "Libera me" articolato senza mai perdere il controllo o soccombere a una drammaticità dominata e declinata con intelligenza insieme con Abbado. La seconda fa del calore della voce, degli armonici opulenti la chiave di un canto avvolgente, di un'ampiezza melodica privilegiata anche rispetto alla parola. Viceversa Giorgio Berrugi si esprime con accorata franchezza tenorile, intesa più come urgenza emotiva e come esibizione vocale melodrammatica e, quindi, anch'essa ben equilibrata in un quadro di istanze diverse e complementari. Fra queste ben s'iscrive anche Roberto Tagliavini (giunto in assenza di Michele Pertusi, corso a Vienna in vece di Ildar Abdrazakov ammalato), voce di grana raffinata, dall'accento distinto e riflessivo, commosso e dignitoso, capace di restituire il senso del testo con attonito riserbo.

Chiude il cerchio del primo minuto di silenzio su invito del sindaco Pizzarotti un ulteriore, interminabile, simmetrico istante sospeso al termine del Requiem, prima di applausi scroscianti. Quasi si volesse esser certi che il suono nuovamente assottigliato fosse evaporato del tutto nell'aria della sera, dopo averne colto tutta l'espansione in un unico e vasto pensiero di ricerca e smarrimento di fronte al mistero e al dolore.

foto Roberto Ricci


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