L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Beethoven, anno 2020

di Roberta Pedrotti

A porte chiuse e in diretta streaming, il Comunale di Bologna propone una "semi-integrale" di Beethoven. Asher Fisch sul podio ci restituisce con intelligenza illuminista e abile propulsione agogica e dinamica un percorso sinfonico specchio dei nostri tempi, reattivo e riflessivo, che trova un culmine poetico nella Pastorale.

BOLOGNA, 6, 13 e 20 dicembre 2020 - Il critico non può essere totalmente oggettivo: è un'utopia che va contro la natura umana, inesorabilmente condizionata dai sensi e dalle esperienze individuali. Il critico, però, può e deve esserne consapevole e articolare di conseguenza le proprie riflessioni.

In questo caso specifico, il ciclo beethoveniano offerto in streaming a ridosso del duececentocinquantesimo compleanno del compositore dal Comunale di Bologna suscita in chi scrive un affetto particolare: quello è il teatro in cui vidi l'ultima opera in un mondo normale (Madama Butterfly in febbraio) e dove vidi il primo concerto dopo il tunnel cieco del lockdown di primavera (Bologna, concerto Valčuha, 01/07/2020), un concerto che, guarda caso, culminava con Beethoven, con la Quarta Sinfonia i cui temi saltellavano da uno strumento all'altro sparso in platea, mentre il ritrovato profumo del teatro, le vibrazioni sonore finalmente di nuovo sulla pelle muovevano alle lacrime.

Ora l'orchestra può apparire in formazione un po' più ricca, seppur distanziatissima, secondo norme ormai collaudate, senza quell'inquietudine incerta che comunque serpeggiava nei primi esperimenti. Eppure non ci siamo, e ricordi del mondo normale a cui tornare o di una riscoperta che è stata un'epifania si mescolano a una distanza a cui potremmo esserci abituati, e invece, per fortuna, no. I concerti si seguono con gioia e partecipazione, non con rassegnazione.

L'esperienza dal vivo – e, con altro direttore, anche in una delle sinfonie proposte – aiuta a contestualizzare nello spazio del Comunale in quarantena la lettura che ora dà Asher Fish di una sorta di “semi-integrale” in tempo di pandemia, in cui manca ovviamente la Nona, impensabile in queste condizioni e in un teatro comunque di dimensioni ridotte, e non si replica la Prima, data solo in ottobre con Roberto Abbado al Paladozza (Bologna, concerto Abbado/ Melnikov, 12/10/2020). Procedendo in ordine cronologico - Seconda Terza e Quarta il 6 dicembre, Quinta e Sesta il 13, Settima e Ottava il 20 – il vuoto fisico stimola una risposta razionale, un'idea di leggerezza che non è quella raccolta dell'intimità cameristica, ma quella diffusa della distanza contingente. Il Beethoven di Fisch è, dunque, un Beethoven fermamente illuminista, retto da una lucida razionalità, ma anche da una vibrante partecipazione umana al presente, coerente con la costola sentimentale dei Lumi che imbraccerà le armi e si farà eroica e rivoluzionaria. Ciò si traduce in una fermezza anche perentoria, dove necessario, unita a una fervida propulsione ritmica, a una tensione incalzante dosata con intelligenza - basti pensare alla sospensione non disanimata che apre la Quarta - quasi il percorso fosse un'unica arcata, dalle radici più classiche della Seconda fino all'apoteosi della danza della Settima e all'apparente, e travolgente disimpegno dell'Ottava, passando per l'impeto determinato della Terza e della Quinta, sempre comunque agitate da un continuo moto interno, da un ché di riflessivo, inquieto ma consapevole. Ciò emerge con evidenza particolare nella Sesta, forse la sinfonia che dell'intero ciclo più ha colpito per la capacità di emanciparsi dal bozzetto pastorale con un più ampio respiro, un'anima cupa che l'attraversa come un presagio nella serenità, una coscienza della tempesta e un'impossibile spensieratezza pur nel rasserenarsi dell'orizzonte. Paradigmatico è come Fisch riesce ad attaccare un incipit sospeso, come se ci apparisse o se ci avvicinassimo a un discorso già iniziato (sovviene il celebre aneddoto dell'allievo che indica a Beethoven il suono di un flauto pastorale in campagna e il maestro, afflitto da uno dei primi attacchi di sordità, finge di udirlo). In egual misura il finale non è netto, ma pare sfumare inafferrabile e indefinito. Così, con un richiamo alla Natura privo di certezze e di pervaso di pensieri e turbamenti, questa Sesta è esattamente la Sesta del 2020, la dimostrazione di come l'opera del genio viva in ogni tempo e sappia raccontare ogni tempo e ogni spazio – anche quello vuoto del teatro in pandemia. E, con la Natura, la Ragione resta l'appiglio e il principio propulsivo, per un moto perpetuo che non esprime ansia e precarietà, bensì intelligenza e vitalità.

Il critico non può essere totalmente oggettivo, ma nemmeno sarebbe giusto lo fosse, perché l'arte stessa non è oggettiva, astratta, avulsa dalla realtà, non attraversa imperturbabile i tempi, ma interpreta, dà perfino un senso, anche alle più assurde catastrofi, aiuta a superarle e prepara un futuro per altra arte, altre interpretazioni.


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