L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Mozart, Salieri e il metateatro

di Francesco Lora

Al Teatro Malibràn si è ricomposto lo storico dittico costituito da DerSchauspieldirektor e Prima la musica e poi le parole. Classe da padrone di casa nel direttore Federico Maria Sardelli, che negli stessi giorni, alla Fenice, ha anche ripreso Il barbiere di Siviglia di Rossini.

VENEZIA, 20 e 21 ottobre 2020 – Un dittico nato storicamente come tale e costituito di valve complementari: Der Schauspieldirektor di Mozart è un Singspiel tedesco fatto di parole recitate e cantate, alla maniera della Entführung aus dem Serail e su testo del medesimo librettista Stephanie; Prima la musica e poi le parole di Salieri è invece un’operina italiana in un atto unico, fatta di recitativi e arie su versi dello smaliziato abate Casti. Debuttarono insieme, a Schönbrunn, nel febbraio 1786, quattro mesi prima delle Nozze di Figaro, e in essi la corte imperiale di Giuseppe II poté comparare due modi di fare teatro in musica (ma la Vienna dell’epoca conosceva bene anche l’opéra-comique francese). Alla maniera dell’Opera seria di Gassmann, dell’Impresario in angustie e del Maestro di cappella di Cimarosa, delle Convenienze ed inconvenienze teatrali di Donizetti, di Capriccio di Strauss e di tanti altri titoli, ambedue i lavori hanno carattere metateatrale: vi si mostra cioè al pubblico la vita dietro le quinte e durante le prove, con abbondanza di riferimenti, qui raffinati e là divertiti, all’attualità scenica dell’epoca.

Ci si imbatte di rado nel Singspiel di Mozart o nell’operina di Salieri; pressoché mai nei due lavori riaffiancati l’uno all’altro, sicut erat in principio. È capitato invece nel serenissimo Teatro Malibràn, con cinque recite dal 9 al 20 ottobre, per conto e nella stagione del Teatro La Fenice. Con la regìa di Italo Nunziata e con le scene e i costumi della Scuola di scenografia dell’Accademia di belle arti di Venezia, Prima la musica e poi le parole scorre a meraviglia – soprattutto a ripensarci, dopo che il sipario è calato – malgrado un testo che pretenderebbe dal pubblico odierno tante, troppe, sottili, difficili, dottissime, improbabili conoscenze preacquisite. Scorre quasi a meraviglia anche Der Schauspieldirektor, adattato con mano lieve nella drammaturgia e – col pretesto di personaggi bilingui – recitato in italiano anziché in tedesco, ma il problema di flusso è connaturato a questo Singspiel: benché la partitura consti di soli cinque brani, all’Ouverture seguono sei scene parlate che, comunque rigirate, fanno attendere la prima aria per una mezz’ora; un colpo basso al melomane che vorrebbe solo sentir cantare.

Nessun gran divo del canto nella locandina veneziana: poco conta che Mozart avesse avuto allora a disposizione le somme primedonne Caterina Cavalieri e Aloysia Weber, e che Salieri fosse stato trattato non meno bene grazie a Nancy Storace e Francesco Benucci (prima Susanna e primo Figaro). Al Malibràn c’erano invece il simpatico Szymon Chojnacki e l’affabile Francesco Ivan Vultaggio, bassi, nonché la pomposa Francesca Boncompagni e la spigliata Rocío Pérez, soprani, impegnati in Prima la musica e poi le parole rispettivamente come Maestro di cappella, Poeta, Donna Eleonora e Tonina. Nello Schauspieldirektor si ritrovavano Chojnacki come Monsieur Buff, la Pérez come Madame Herz e la Boncompagni come Mademoiselle Silberklang, raggiunti dal sempre energico tenore Valentino Buzza come Monsieur Vogelgesang e da sei attori per altrettante parti recitate: Karl-Heinz Macek, Marco Ferraro, Francesco Bortoluzzo, Michela Mocchiutti, Roberta Barbiero e Valeria De Santis. La concertazione spettava al più dotto, forbito e sferzante direttore settecentista che il panorama italiano oggi sappia vantare: Federico Maria Sardelli, che in partiture oggi fuori dal repertorio e tutte da riportare in luce si aggiudica il tornito, brillante e contrastato séguito dell’orchestra veneziana.

La stessa orchestra farebbe bene a fidarsi di Sardelli anche quando a lui spetti dare una spolverata filologica e stilistica al Barbiere di Siviglia, in scena alla Fenice per sei recite dal 18 al 25 ottobre. La più popolare tra le opere di Rossini si dà in laguna quasi tutti gli anni, ma usando vetusti materiali di tradizione, zeppi di errori, mancanze e incrostazioni. Spiace allora che i professori paiano mordere il freno davanti a chiare e lucide richieste del podio, onde ripetere piuttosto le improbabili scelte agogiche inculcate da una genealogia di battisolfa. Un’occasione da riacciuffare: la Fenice richiami presto all’ordine le maestranze, richiami tout court la bacchetta di Sardelli e appronti per quest’ultimo un Barbiere quantomeno senza l’inverecondo taglio del Rondò del Conte d’Almaviva. Nella seconda compagnia di canto – aitante quanto e più della prima – la principale curiosità è proprio intorno al Conte del ventiquattrenne Manuel Amati: voce che è piccolina ma corre a piacere, porgere che ha comunicativa ammaliante, timbro che è il più fragrante tra i nuovi; ecco il giovane tenore al quale ha oggi più senso affezionarsi. Gli altri interpreti sono riconferme, dal Bartolo di Marco Filippo Romano, buffo d’eccezione, alla Rosina di Laura Verrecchia, sempre più a fuoco, al Figaro di Filippo Fontana, estroverso ma fine, al Basilio di Andrea Patucelli, nobile macchietta. Se poi l’annoso allestimento con regìa di Bepi Morassi non perde mai l’anima, una ragione serissima è anche nell’esilarante Giovanna Donadini, inamovibile nella parte di Berta: «Cessa di più resistere» è stato falciato via in nome di una tradizione stolta, ma a resistere al proprio posto c’era almeno «Il vecchiotto cerca moglie».


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