L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Berliner Philharmoniker, i dubbi sulla signoria

di Francesco Lora

 

Onori profetici accolgono al Maggio Musicale Fiorentino la grande orchestra sinfonica tedesca diretta da Gustavo Dudamel; ma la fieristica dimostrazione tecnica non vale l’esperienza di chi abbia in orecchio il temperamento dei Wiener Philharmoniker o la poesia della Staatskapelle di Dresda.

FIRENZE, 24 giugno 2014 – Festa di san Giovanni Battista a Firenze, e festa con i Berliner Philharmoniker al Maggio Musicale Fiorentino. Onori profetici accolgono la grande orchestra sinfonica tedesca in tournée italiana, dal pellegrinaggio di pubblico convenuto da tutta la Penisola nel capoluogo toscano, a un programma di sala che non dedica una riga alle musiche in programma, bensì consiste per intero in un’agiografia degli interpreti. C’è per la verità anche un altro protagonista della situazione, ossia il nuovo Teatro dell’Opera pronto ad accogliere gli illustri padrini di battesimo: esso è un capolavoro della barriera architettonica (qualunque posto si debba occupare, i gradini per arrivarci sono sempre troppi) e della visibilità condizionata (che è eccellente nella platea, molto digradante, e critica nella galleria, causa l’incredibile larghezza del parapetto); l’acustica, tuttavia, è favolosa per presenza, arricchimento e moltiplicazione del suono, con risultati che nessuna grande sala italiana di recente costruzione oggi eguaglia.

Ciò riveste peso notevole negli esiti del concerto qui recensito: le poderose colonne sinfoniche dei Berliner, il loro esattissimo legato e il bouquet dei loro timbri ricevono un’ospitalità invidiabile tanto dal punto di vista istituzionale quanto da quello ambientale. Ma nemmeno l’occasione fiorentina, a proposito della spesso predicata signoria assoluta dei Berliner nel novero delle grandi orchestre, mette in pace il cuore di chi scrive. Nel programma di sala Alberto Mattioli arde incenso a non finire, ma non perde d’occhio la lucidità dell’analisi: evidenzia per esempio il camaleontismo stilistico dei Berliner nel passaggio da un direttore musicale all’altro, e dunque il ruolo fondamentale delle poche bacchette storiche salite al vertice della compagine. È una differenza sostanziale rispetto al ménage dei Wiener Philharmoniker, che custodiscono orgogliosi la loro tradizione e la loro identità rifiutando un direttore musicale, e a quello della Staatskapelle di Dresda, che non ha difficoltà a cambiare di frequente direttore ma che concede intoccabile il più bel suono del mondo.

A differenza delle orchestre dette, i Berliner dimostrano sì una puntuale conoscenza di grammatica e logica, ma anche una caparbia ritrosia all’arte retorica, connettibile forse alla vocazione sinfonica pura anziché alla militanza teatrale nel golfo mistico. Ogni sezione della macchina vanta cioè preclare risorse tecniche, ma congenito è il disinteresse al porgere espressivo, temperamentoso, culturalmente contestualizzato e vivido. Disinteresse congenito e aggravato dalla visione asettica e minimale dell’attuale direttore musicale, Simon Rattle, così diverso dal suo predecessore Claudio Abbado e così troppo diverso dall’onnipotente Herbert von Karajan. Così, nel programma fiorentino la grandezza dei Berliner non è nemmeno sontuosa ostentazione, ma fieristica dimostrazione di un campionario di prodezze tecniche fini a sé stesse; e le musiche eseguite finiscono con il livellarsi al loro mobile interno e con l’uniformarsi pur nella loro diversità, dalla fantasia sinfonica La tempesta e dall’ouverture-fantasia Romeo e Giulietta di Čajkovskij alla Sinfonia n. 1 di Brahms.

Eppure sul podio, al posto dell’algido Rattle, c’è Gustavo Dudamel: non ha l’aura dell’intellettuale, ma palesi doti comunicative, abilità nello sciogliere le inibizioni, mezzi insomma per contribuire al disgelo di un’orchestra tanto nobile e celebre quanto ingessata e trattenuta. Non un’orchestra di prìncipi come quella di Santa Cecilia, non un’orchestra di generali come i Wiener, non un’orchestra di poeti come la Staatskapelle di Dresda, non un’orchestra di eroi come la Filarmonica di San Pietroburgo e non un’orchestra di giardinieri come la quondam Mozart di Bologna, bensì – se la metafora può essere osata – un’orchestra di scienziati attenti più alla formula che al fenomeno da essa descritto. Molta ammirazione tecnica sul momento, poca gratitudine artistica da fissare nei ricordi. Imbarazzante, per finire, la scelta dei due bis: l’estrapolazione del solo galop dall’ouverture del Guillaume Tell di Rossini, sede di sfasamenti ritmici nonostante un secco stacco a metronomo e omaggio circense, maldestro e quasi insultante al repertorio italiano; e il Waltz dal Divertimento di Bernstein, che procede qui frigido e impalato anziché con l’implicita e seducente mollezza.

 


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