L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Verso il nuovo mondo

di Irina Sorokina

Ottimi cast, suggestioni visive e qualche difficoltà legata ai distanziamenti per il dittico verista che ha aperto ufficialmente il cartellone areniano dopo l'Aida diretta da Muti.

Verona, 25 giugno 2021 - “La coppia vincente” avrebbe potuto fare capolino in Arena di Verona più spesso. Abbiamo già indovinato che “la coppia vincente” è Cavalleria rusticana e Pagliacci. Ma non è andata così; quelli che vantano una lunga frequentazione delle stagioni areniane si ricordano l’ultima apparizione veronese delle prime rondini del verismo nel 2006 e si ricordano anche il fatto che lo spettacolo firmato da William Orlandi e Gilbert Deflo non attirò una quantità stratosferica di spettatori. Non era male, ma nemmeno lasciò un ricordo indelebile: scavando nella memoria, fanno le loro apparizione qualche colonna dorica e un antico ulivo, comuni per entrambe le opere, in Cavalleria si ricorda anche un gigantesco un crocefisso per terra, in Pagliacci i furgoncini del teatrino itinerante.

Perché questo ricordo? Ma perché a distanza di quindici anni passati il confronto tra due produzioni è così abbagliante che, sembra, possiamo considerarci alla vigilia della rivoluzione. O, forse, siamo già catapultati nella rivoluzione. Non si tratta soltanto delle restrizioni necessarie nei tempi del coronavirus, ma di un cambiamento decisivo della messa in scena degli spettacoli lirici: siamo in era digitale.

L’anno scorso , in piena pandemia, l’Arena di Verona non ha potuto realizzare il festival com’era previsto, ma una decisione coraggiosa ha portato comunque un pubblico molto limitato a godersi una serie di eventi importanti, tra cui molti gala con le stelle dell’opera più acclamate del momento. Quest’anno il palco al centro dell’anfiteatro scompare e si torna agli spettacoli completi, con scenografie e regia, tuttavia totalmente diversi dai kolossal a cui siamo abituati in Arena. La pandemia non è ancora finita e si è costretti a rispettare le regole di distanziamento sociale. L’anno scorso abbiamo ammirato gli effetti del video mapping, oggi vediamo una grandiosa ledwall di quattrocento metri quadrati messa lungo il palcoscenico per le scenografie virtuali in 3D, fissa per tutte le produzioni, pochi elementi scenici come tavoli, sedie o palco del teatrino itinerante. Ma non finisce qui. La stagione in corso è segnata dalla collaborazione con importanti musei e i siti archeologici del Bel Paese; la ledwall accoglie immagini di capolavori di cui l’Italia è così ricca, elaborate dal gruppo D-Wok che firma le scenografie virtuali. Per Cavalleria vengono impiegati alcuni disegni custoditi nei Musei vaticani e in Pagliacci, che si ispirano al mondo felliniano, si riconosce subito il primo disegno di Gelsomina fatto dal regista per il film La Strada.

Cavalleria rusticana presenta un ottimo cast: ogni cantante si cala perfettamente nei panni del personaggio, spesso si ha l’impressione che entri proprio nella pelle di Santuzza, Turiddu, Alfio, Lola e mamma Lucia. Una sensazione emozionante, soprattutto se si pensa che si ha a che fare con alcuni artisti provenienti da parti del mondo ben diverse dal Meridione italiano.

Sonia Ganassi, Santuzza, è una vera mattatrice della serata e offre un’interpretazione profonda, sfiorando le vette di una vera tragedia. Purtroppo, a volte l’attrice prevale decisamente sulla cantante; la prima recita in modo naturale e struggente ed è capace di trasmettere tutte le sfumature del tormento amoroso, la seconda canta in modo disomogeneo anche se fornisce una buona linea di canto e gioca su colori diversi.

Accanto a lei, il tenore turco Murat Karahan scava in profondità la psicologia di Turiddu: in fondo è bravo ragazzo, che permette alla passione di metterlo in una situazione insopportabile. Questa sensazione di qualcosa di insopportabile, simile a un’isteria che ormai si è impadronita di lui, la trasmette attraverso movenze scattanti e soprattutto raffinate sfumature di fraseggio. Anche una certa opacità del timbro giova a questo Turiddu. Scherzando, ma non troppo, possiamo affermare che nella Siciliana il colore viene soffocato dal calore, e la voce risulta un po’ affaticata nell’addio alla madre. Una grande interpretazione, che non si dimenticherà facilmente.

Al debutto nel ruolo di Alfio, il baritono mongolo Amartuvshin Enkhbat, che abbiamo ascoltato in diverse occasioni, in Arena nel ruolo di Nabucco e in streaming da Treviso in quello di Rigoletto. Continua a sorprenderci questo uomo venuto dalla terra vasta “schiacciata” tra la Federazione Russa e la Cina a cui la natura ha fatto un dono così grande: una voce rotonda, pastosa e dal timbro bellissimo. Ma come non bastasse, lo vediamo in una continua crescita artistica: in pochi anni ha acquistato maggior sicurezza scenica, ha dimostrato una grande comprensione della psicologia del personaggio, il suo canto sta diventando sempre più libero e il fraseggio più raffinato. Così il suo compar Alfio, sorprendentemente disinvolto, piccoletto dalla faccia bonaria e col fuoco micidiale dentro, uccide senza battere il ciglio, facendo scorrere dalla bocca frasi segnate da un legato impeccabile.

Agostina Smimmero ormai non interpreta mamma Lucia, ma è mamma Lucia: da sempre dimostra tutte le carte in regola per interpretare questo piccolo grande ruolo. La sua voce enorme e dal timbro scuro basterebbe da sola per disegnare il personaggio, ma è dotata anche di una particolare sensibilità come attrice. Chi, se non lei, è in grado di vestire in modo così convincente i panni di una mamma del Sud?

Clarissa Leonardi è una grintosa e corretta Lola.

Un cast stellare anche per Pagliacci, dove i ruoli di Canio, Nedda, Tonio e Silvio sono affidati rispettivamente a Yusif Eyvazov, Marina Rebeka, Armatuvshin Enkhbat e Mario Cassi. Si parte davvero in bellezza, trattandosi della perfetta interpretazione del Prologo da parte del fenomenale baritono mongolo che merita un’entusiasmante ovazione da parte del pubblico.

L’anno scorso abbiamo dedicato parole d’ammirazione a Yusif Eyvazov che nel tempo passato dal suo Andrea Chénier alla Scala è cresciuto in modo impressionante sia come cantante sia come interprete. Possiamo ripetere le stesse cose ascoltando il suo Canio: disegna un personaggio molto credibile e coinvolgente, desta sentimenti disparati come la comprensione e il disgusto, recita con abbandono, si dedica al fraseggio in modo quasi maniacale, ogni parola cantata risulta elaborata. Gli manca un po’ di spessore e squillo necessari, in alcuni momenti il volume della voce non è sufficiente, in altri si sentono sfumature gutturali. In “Recitar!” la voce risulta affaticata, ma la qualità dell’interpretazione non si tocca, e gli applausi sono pienamente meritati.

Marina Rebeka è una Nedda graziosa, stuzzicante, passionale e indomabile, dalla voce limpida e gradevole. Sonorità simili ad un tintinnio dei boccali di vetro soffiato creano un contrasto interessante con quelle passionali nel finale.

Ascoltare Mario Cassi è sempre un piacere: la voce è bellissima, l’emissione morbida, la musicalità impeccabile e la dizione limpida.

Il giovane Riccardo Rados è un Peppe energico e compiacente dalla voce salda; completano il cast Max René Cosotti – un contadino e Dario Giorgelè – altro contadino.

Sul podio il rinomato direttore Marco Armiliato, che abbiamo già avuto il piacere di ascoltare in Arena, cerca di dare il proprio meglio, ma il compito di dirigere opera in veste nuova risulta troppo difficile. La necessità di evitare gli assembramenti porta alla decisione di disporre il coro sulle gradinate in Cavalleria (si crea così una somiglianza col coro della tragedia greca), mentre l’azione si svolge sul palcoscenico. L’energia innata e la bravura professionale di Armiliato non bastano per far andare insieme l’orchestra, i solisti e il coro. Si vivono momenti di tensione anche se non mancano quelli emozionanti, tra i grandi slanci lirici e gli episodi drammatici.

Non ci sono i nomi dei registi, scenografi e costumisti sulla locandina: l’attuale festival lirico è frutto di un lavoro collettivo a cui partecipano, giustamente, anche i ballerini e i tecnici dell’Arena di Verona. Ciononostante due opere veriste che inaugurano il novantottesimo festival in Arena di Verona vantano di una fisionomia inconfondibile capace di attirare l’occhio e stimolare la mente del pubblico. In Cavalleria siamo affascinati dalla ricca e selvaggia terra siciliana che mantiene gelosamente le proprie tradizioni e si presenta come “un pozzo del tempo” dove ci si scende incuriositi e affascinati, in Pagliacci veniamo catapultati nello Studio5 di Cinecittà dove si gira un film del grande romagnolo Fellini, tutto luccica attorno all’umanità più varia e la fa impazzire. Due opere diverse, due allestimenti funzionanti e coinvolgenti in cui le tecnologie digitali giocano un ruolo decisivo. Sarà possibile il ritorno agli spettacoli di prima? O ormai l’era digitale è qui e da oggi farà da padrona? Lo vedremo presto.


 

 

 
 
 

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